Otto chilometri più avanti toccammo finalmente terra. Avevo la testa rivolta appunto a riva, ma non vidi gli edifici fin quando i verdoni non mi gettarono sprezzantemente fuori dall'amaca e, una volta libero, non mi rimisero in piedi. Subito persi l'equilibrio e ricaddi seduto. Non sentivo più i piedi. Mentre me li massaggiavo per ripristinare la circolazione, osservai con occhi incuriositi quel posto che poteva essere indifferentemente un villaggio da ridere o una vera e propria metropoli.
Gli edifici erano costruiti in legno verde chiaro ed erano tutti cilindrici, d'altezza e diametro uniformi, e al centro di ognuno di essi vi cresceva un grosso albero, il cui fogliame si stendeva ben oltre il raggio di ciascuna casa, fornendo a questo modo una protezione dagli sguardi indiscreti provenienti dall'alto. Non si sarebbe potuto davvero studiare niente di meglio per nascondere quella città dall'aria, sebbene non ci fosse ragione di supporre che gli abitanti dovessero temere qualche pericolo dall'alto.
Tuttavia, visto il modo in cui alberi e edifici sorgevano negli stessi posti, era assolutamente impossibile stimare le dimensioni di quel posto, perché al di là del più vicino schermo di edifici c'erano altri alberi e poi ancora alberi e alberi e alberi, ciascuno dei quali avrebbe anche potuto nascondere una casa. Mi era assolutamente impossibile dire se stavo guardando un miserabile villaggio o i sobborghi in riva al fiume di una metropoli che arrivavano fino all'orizzonte. Niente di strano che quando la scialuppa era uscita in esplorazione non avesse visto altro che la foresta. Anche se fosse passata sopra una zona popolata da milioni di abitanti, l'equipaggio non avrebbe notato altro che la giungla.
Un'orda di verdoni, con le armi spianate e gli occhi vigili, si affollò attorno a noi, mentre alcuni di essi finivano di liberare i prigionieri. Il fatto che fossimo arrivati a bordo di un apparecchio come il Marathon non li riempiva per niente di reverenza nei nostri confronti. Adesso i piedi erano tornati ad ubbidirmi, così feci sforzo sui miei scarponcini, mi rialzai in piedi e mi guardai. Fu allora che provai una duplice scossa.
La prima la ricevetti quando scrutai i miei compagni di sventura. Di tutti gli effettivi del Marathon ce n'erano qui meno della metà. Gli altri mancavano. Un'amaca conteneva una forma immobile e rilassata che riconobbi essere il corpo del tizio che era stato investito dalla scarica di dardi subito dopo il nostro atterraggio. Su un'altra riposava la forma sveglia, ma disinteressata e dall'aria sognante di Sug Farn. Ma lui era l'unico marziano presente. Degli altri non c'era nessuno. E mancavano pure l'ingegnere capo Douglas, Bannister, Kane, Richards, Kelly, Jay Score, Steve Gregory, il giovane Wilson e una dozzina d'altri.
Erano forse morti? Ma pareva poco probabile... altrimenti perché i verdoni avrebbero dovuto trasportare un cadavere, ma non gli altri? Erano forse riusciti a fuggire o formavano forse un secondo gruppo di prigionieri che erano stati portati altrove? Non c'era modo di determinare il loro destino, eppure era strano che mancassero.
Diedi di gomito a Jepson: «Ehi, hai notato...?»
Dal lato del fiume arrivò un improvviso rombo e tutti i verdoni sollevarono attoniti gli occhi e si misero a gesticolare con le loro armi. Vedevo che muovevano anche la bocca, ma il ruggito che veniva dall'alto ne soffocò i suoni. Mi girai di scatto e quasi gli occhi mi schizzarono dalle orbite quando l'agile forma della lancia del Marathon scese in picchiata fino a pochi metri dalla superficie del fiume, per poi riprendere quota e svanire al di sopra degli alberi accompagnata dal suo rombo che andò allontanandosi sempre di più.
Poi la sentii compiere un'ampia virata e il frastuono andò accelerando mentre ricompariva con un'altra picchiata, così bassa che sfiorò la superficie dell'acqua, sollevando dietro di sé una spruzzata di goccioline verdi e mandando a frangersi delle piccole ondate contro riva. Quindi sfrecciò via di nuovo con un rombo beffardo, passandoci davanti a tale velocità che non fu possibile distinguere la cabina del pilota.
Jepson si sputò sul pugno, rivolse un'occhiataccia ai verdoni e disse: «Adesso questi vermacci schifosi se la vedranno brutta!»
«Tut!» lo rimproverai.
«E in quanto a te,» cominciò, ma non ebbe il tempo di dire altro, perché improvvisamente un verdone alto e magro dall'aria cattiva gli saltò addosso.
Quindi gli diede uno sprezzante urtone in pieno petto e pigolò qualcosa in tono interrogativo.
«Non azzardarti a mettermi le mani addosso!» ringhiò Jepson, restituendogli lo spintone.
Il verdone barcollò all'indietro, poi riprese l'equilibrio e vibrò un calcione con la gamba destra. Dapprima pensai che volesse cercare di colpire Jepson alle tibie, ma non era così. Gli stava invece gettando addosso qualcosa e quel qualcosa era una cosa viva. Tutto quello che riuscii a vedere era qualcosa che assomigliava, ma poteva anche non essere, a un serpentello, lungo e spesso non più di una matita e, tanto per cambiare, non era di color verde ma di un arancio brillante con macchioline nere. La cosa cadde sul petto di Jepson, lo morse, poi gli scivolò giù dal corpo con tale rapidità che quasi non riuscii a seguirlo e, raggiunto il suolo, sfrecciò sull'erba verso il suo proprietario.
Infine si arrotolò alla caviglia del verdone, a pancia all'aria, e assunse esattamente l'aspetto di un innocuo ornamento della gamba. C'erano anche altri indigeni che portavano oggetti similari e tutti erano color arancio a macchie nere, eccetto uno che era giallo e nero.
Jepson strabuzzò gli occhi, aprì la bocca, ma non emise alcun suono. Barcollò. Il tizio che portava alla caviglia quella robaccia gialla e nera era al mio fianco e osservava Jepson con interesse accademico. Io gli spezzai il collo. Il rumore che fece spezzandosi, mi ricordò quello di un legno marcio. La cosa che aveva alla caviglia lo lasciò nello stesso istante che cadeva, ma era ormai troppo tardi. Jepson crollò a faccia a terra, proprio mentre il mio stivaletto spiaccicava quella cosa disgustosa sul tappeto erboso.
Attorno a me ci fu un pandemonio e sentii la voce ansiosa di McNulty gridare: «Ragazzi, calma! Ragazzi!» Perfino in un momento come quello quel fesso pensava solo al pericolo di venir degradato per aver tollerato dei maltrattamenti da parte nostra nei confronti degli indigeni. Armstrong continuava a gridare: «Eccone un altro!» e ogni volta a quelle parole seguiva un tonfo nelle acque del fiume. Dappertutto si sentivano rumori sordi e le sfere avevano ripreso a spezzarsi. Jepson continuava a giacere come morto mentre i contendenti incespicavano sopra di lui. Brennand si precipitò verso di me. Respirava a fatica e stava cercando di strappare un occhio nero a un muso verde.
Intanto io avevo messo le mani su un altro aborigeno e avevo cominciato a farlo a pezzi, cercando di immaginarmelo come un pollo arrosto di cui mi pare di non ricevere mai di più del pezzo che vola per ultimo al di là della siepe. Era un verdone difficile da tenere quello, però, e rimbalzava come una palla di gomma. Di sopra della sua spalla vedevo Sug Farn che se la sbrogliava con cinque di essi per volta e gli invidiai quei tentacoli che gli servivano da braccia. Il mio avversario colpì con le sue dita rigide nel punto in cui avrei dovuto avere quel crisantemo che non possedevo, parve sorpreso di esserselo scordato, e stava ancora pensando a una nuova mossa quando finì nel fiume.
Poi mezza dozzina di sfere si schiantarono ai miei piedi e l'ultima cosa che ricordo di avere udito fu Armstrong che urlava qualcosa prima di sentire un tuffo. L'ultima cosa che ricordo, invece, fu di aver visto Sug Farn che tirava fuori di scatto un tentacolo di riserva che aveva temporaneamente messo in disparte per far sì che dei sei verdoni che mi erano saltati addosso solo cinque giungessero a destinazione. L'altro stava ancora volando quando io caddi a terra.
Per chissà quale ragione non persi i sensi come mi era capitato prima; forse avevo aspirato solo una mezza dose di ciò che emettevano le sfere o forse queste contenevano una sostanza diversa. L'unica cosa di cui mi resi conto, fu di cadere con cinque aborigeni attaccati alle costole, mentre il cielo girava come impazzito e il cervello andava in pappa.
Poi, cosa stupefacente, mi risvegliai, con le estremità superiori di nuovo strettamente legate.
Sulla mia sinistra un gruppo di indigeni formava una specie di Montagna su delle forme che non potevo vedere ma che sentivo bene. Armstrong stava urlando a più non posso sotto quel gruppo di indigeni, che, dopo un paio di minuti, si separò per rivelare la sua sagoma legata insieme a quella di Blaine e Sug Farn. Alla mia destra c'era Jepson, con le braccia libere, ma chiaramente fuori combattimento. Non c'era nessuna traccia della lancia.
Senza altro indugio, i verdoni ci fecero marciare attraverso il tratto erboso e attraverso otto chilometri di foresta, o città, come diavolo volete chiamarla. Due di loro trasportavano Jepson in una specie di cesta di vimini. Gli alberi erano ancora nello stesso numero delle case. Di tanto in tanto sulle porte si affacciavano degli abitanti dall'espressione impassibile che osservavano la nostra penosa marcia. A vederci veniva quasi da pensare che fossimo gli unici esemplari superstiti del dodo.
In questa sfilata di morte, Minshull e McNulty procedevano proprio dietro di me e sentii il secondo pontificare: «Parlerò al loro capo di questa faccenda. Gli griderò sul muso che tutti questi incidenti sono stati la conseguenza inevitabile della bellicosità della sua gente.»
«Non c'è dubbio,» concesse Minshull con un tocco di ironia nella voce.
«Pur concedendo che ci sono delle reciproche difficoltà di comprensione,» continuò McNulty, «sono convinto che abbiamo il diritto di essere accolti con un minimo di cortesia.»
«Verissimo,» osservò Minshull. La sua voce era ora solenne quanto quella del presidente di un congresso di impresari di pompe funebri. «E faremo notare che il modo in cui siamo stati accolti lascia molto a desiderare.»
«È precisamente il mio punto di vista,» ribatté il capitano.
«E qualsiasi proseguimento delle ostilità sarebbe veramente deplorabile,» continuò Minshull.
«Naturalmente!» confermò McNulty con entusiasmo.
«Nel qual caso ci sentiremo autorizzati a sbudellare tutti i verdoni di questo pianeta puzzolente.»
«Eh?» questa volta McNulty fece una pausa. La sua voce si levò stridula.
«Niente, niente,» mentì Minshull in tono amabile. «Non ho neanche aperto bocca.»
Ciò che il comandante offeso avrebbe voluto dire rimase un mistero perché a quel punto un verdone giudicò che avesse rallentato troppo il passo e lo pungolò. Così McNulty accelerò sbuffando l'andatura e da quel momento in poi camminò immerso in un silenzio introspettivo.
Alla fine uscimmo da una lunga fila ordinata di case nascoste dagli alberi e entrammo in una radura ampia il doppio di quella in cui era atterrato prima il Marathon. Era una radura circolare, pianeggiante e coperta da un muschio di un ricco color smeraldo. Il sole, che ormai era ben alto in cielo, riversava un diluvio di raggi verdi chiari su quello strano anfiteatro al cui limitare si accalcava un'orda di indigeni in silenziosa attesa.
Il centro di quella radura colpì subito la nostra attenzione, perché qui spiccava in modo visibile, come un enorme grattacielo in un paesino della terra, un gigantesco albero, un vero e proprio albero mostro. Quanto fosse alto era assolutamente impossibile dirlo, ma era tanto grande da far sfigurare al suo confronto le gigantesche sequoie della Terra. Il suo tronco aveva un diametro di ben dodici metri e l'estensione dei suoi rami era immensa sebbene i rami si trovassero a un'altezza spropositata. Questo possente albero era così enorme che non riuscivamo semplicemente a staccarne gli occhi. E se questa specie di cosmici zulù intendevano appiccarci se non altro avevano scelto bene l'albero a cui farlo. Visti da terra, i nostri corpi sarebbero parsi semplicemente degli insetti svolazzanti appesi tra la Terra e il cielo.
Minshull dovette aver pensato la stessa cosa, perché sentii dire a McNulty. «Guardi che albero di Natale! E noi siamo le palline colorate. Adesso tireranno a sorte e il fortunato che pesca l'asso di picche farà da reginetta su in cima.»
«Non essere morboso,» sbottò McNulty. «Non faranno nulla di così illegale.»
Poi un indigeno indicò il nostro comandante così ottimista e sei di essi gli saltarono addosso prima che questi potesse dilungarsi ulteriormente sull'argomento della legge intercosmica, quindi, con assoluto spregio degli usi a cui la vittima teneva tanto, lo trascinarono verso l'albero in attesa.
VI
Fino a quel momento non avevamo notato il rullio di tamburi che echeggiava sordamente tutt'attorno alla radura. Adesso lo si sentiva ben forte e aveva un qualcosa di sinistro in quei battiti sordi e insistenti. Quel rimbombo strano e elusivo era stato con noi fin dal principio; alla fine ci eravamo abituati e non gli avevamo più prestato attenzione allo stesso modo in cui si diventa insensibili al familiare tic tac di un orologio di casa. Ma adesso, forse perché quel rullio serviva a accrescere la drammaticità della scena, ci rendevamo ben conto di quel tum, tum, tum insistente e mortale.
La luce verde sul viso del comandante gli diede un'espressione macabra, ma McNulty continuò a avanzare con solennità e il suo volto dimostrava un'incrollabile fede nella virtù della ragionevolezza. Non ho mai incontrato una persona che avesse più fiducia di lui nella legge. Mentre camminava verso l'albero, so che lo animava la profonda convinzione che quella povera gente non avrebbe potuto fargli niente di drastico se prima non avessero riempito tutti i moduli prescritti e li avessero legalizzati con i debiti timbri e firme. Se McNulty doveva morire, sarebbe morto con l'approvazione della legge.
A metà strada dall'albero, nove alti indigeni andarono incontro al comandante e alla sua guardia. Questi nuovi indigeni non erano vestiti in modo diverso dagli altri, eppure, riuscivano a dare la vaga impressione di differenziarsi dalla massa. Forse erano degli stregoni, stabilì la mia mente in preda all'agitazione.
Quelli che tenevano McNulty lo consegnarono prontamente a questi nuovi arrivati, poi scapparono di corsa verso il limitare della radura come se avessero visto il diavolo in persona. Ma non c'era nessun diavolo, solo quell'albero mostruoso. Tuttavia sapevo cosa erano in grado di fare certi alberi in questo mondo verdeggiante, l'avevo visto coi miei occhi, ed era assai probabile che questo nonno di tutti gli alberi fosse in grado di azione riprovevoli assolutamente uniche nel suo genere. Di quel bestione d'albero una cosa era sicura... di gamish ne aveva a bizzeffe.
I nove spogliarono rapidamente McNulty fino alla cintola. Lui continuava a parlar loro, ma era troppo lontano da noi perché potessimo sentire il succo della sua ramanzina e i catturatori non gli badarono minimamente. Ancora una volta gli esaminarono il petto, conferirono tra di loro, e bruscamente presero a trascinarlo verso l'albero. McNulty vi si oppose con appropriata dignità. Allora lo sollevarono di peso e lo portarono loro.
Con voce aspra, Armstrong, disse: «Abbiamo ancora delle gambe, non vi pare?» e subito dopo falciò le gambe alla guardia più vicina con un calcio ben assestato.
Ma prima che qualcun altro potesse seguire il suo esempio e dare il via a un'altra inutile rissa, giunse un'interruzione dal cielo. Sul costante tambureggiare della foresta si sovrappose un altro rullio più rapido e vigoroso che si trasformò rapidamente in un crescente ululato. Poi l'ululato crebbe fino a diventare un esplosivo ruggito, mentre rapida l'argentea lancia del Marathon si abbassava al di sopra dell'albero fatale.
Qualcosa cadde dal suo ventre, qualcosa che quando scoppiò assunse una forma a fungo, che come dopo un momento di esitazione, calò lentamente sulla chioma dell'albero. Era un paracadute! E vidi che all'imbragatura c'era appesa una figura che poi venne inghiottita nell'oceano di quel fogliame. La distanza aveva fatto sì che fosse impossibile riconoscere l'invasore calato dal cielo.
I nove che trasportavano McNulty Io lasciarono cadere senza tante cerimonie sull'erba e osservarono l'albero in attesa che succedesse qualcosa. Cosa strana, tutte le manifestazioni aeree riempivano quegli indigeni più di curiosità che di paura. L'albero rimase imperturbato, poi, improvvisamente, tra i rami superiori, scoccò il raggio di una pistola, che toccò un grosso ramo nel punto di giunzione col tronco e lo tranciò. Il ramo così amputato cadde roteando al suolo.
Immediatamente un migliaio di protuberanze simili a germogli nascosti tra le foglie dell'albero si gonfiarono come palloncini, raggiunsero le dimensioni di zucche gigantesche e scoppiarono con una salve di schiocchi secchi come colpi di fucile, emanando contemporaneamente una nebbiolina giallognola a un ritmo tale che in meno di un minuto tutto l'albero ne fu avvolto. Tutti gli indigeni presenti lanciarono stridule grida da civette e, volte le spalle, scapparono via. Anche i custodi di McNulty rinunciarono alla cerimonia che avevano in mente e si unirono ai fuggiaschi. La pistola ne centrò due prima che avessero fatto una decina di passi, gli altri sette raddoppiarono l'andatura. Rimase solo McNulty che si diede da fare a cercare di liberarsi dai legacci che gli avvincevano i polsi mentre la nebbiolina scivolava lentamente verso di lui.
Di nuovo comparve il raggio dell'arma in cima all'albero che ormai era appena visibile dentro quel manto di nebbia e un altro ramo cadde a terra. L'ultimo indigeno era ormai scomparso. La nebbiolina era ormai a trenta metri dal comandante che la osservava come un uomo incantato da un serpente. I suoi polsi erano ancora legati ai fianchi. All'interno della nebbiolina gli scoppietti coninuarono a susseguirsi anche se non più così rapidamente.
Mentre gridavamo a McNuIty che se ne stava come imbambolato di sfruttare le gambe, cercammo disperatamente di liberarci tra di noi dei legacci. McNulty prese a indietreggiare, ma lentissimamente, con un passo da paralitico. Infine Armstrong riuscì a liberarsi con uno sforzo sovrumano, si sfilò di tasca un coltello a serramanico e cominciò a tagliare i nostri legami. Minshull e Blaine, i primi due a venire così liberati, corsero verso McNulty che a dieci metri da quella nebbiolina sembrava un imponente Aiace che sfidava il potere degli dei alieni, e lo trascinarono indietro.
Proprio mentre finivamo di liberarci, la lancia tornò indietro con un'ampia virata e svanì dietro la colonna di nube gialla per poi allontanarsi con un rumore di tuono. La salutammo con un rauco evviva, poi dalla nebbiolina uscì a grandi passi una imponente figura che con ciascuna mano trascinava dietro di sé un corpo afflosciato. Era Jay Score e sulle spalle portava una piccola ricetrasmittente.
Jay Score venne verso di noi, grande e possente, con gli occhi in cui bruciava quella sua fiamma perenne e ci mollò davanti i due cadaveri. «Guardateli... ecco cosa vi farà quel vapore se non vi muovete subito di qui e di corsa!»
Guardammo. Quelle due povere cose era quanto restava dei due indigeni che aveva colpito, ma la loro pelle non era marcita così per colpa del raggio della pistola. Quei due corpi lebbrosi erano troppo distrutti per poter essere chiamati cadaveri, ma non lo erano abbastanza per essere definiti scheletri. Erano semplicemente dei brandelli di carne e di organi divorati a metà su un'ossatura in decomposizione. Non era difficile capire cosa sarebbe successo a Jay se fosse stato composto di carne e ossa o fosse stato un essere respirante.
«Torniamo al fiume,» consigliò Jay. «Dobbiamo assolutamente raggiungerlo anche a costo di aprirci la strada con le mani. Il Marathon atterrerà sulla riva e non dobbiamo mancarlo per nessuna ragione.»
«Ma non dimenticate, ragazzi,» aggiunse McNulty, «che non voglio inutili stragi.»
Ci fu un bel coro di risate. Le nostre uniche armi, consistevano ormai nella pistola a raggi di Jay, il coltello a serramanico di Armstrong e i nostri pugni. Dietro di noi incalzava lentamente, ma con costanza, la nebbiolina mortale. E tra noi e il fiume si stendeva la metropoli dei verdoni con tutti i suoi abitanti, di cui non conoscevamo neppure il numero, armati di ordigni ignoti. Insomma, ci trovavamo in mezzo a due fuochi, tra un demone giallo e un mare verde.
Ci mettemmo subito in marcia con Jay in testa. McNulty e il massiccio Armstrong dietro di lui. E dopo di loro venivano due uomini che trasportavano Jepson, il quale anche se era in condizioni di usare la lingua, non poteva ancora muovere le gambe. Due altri trasportavano il cadavere che i nostri attaccanti si erano portati dietro dall'astronave. Riuscimmo così ad addentrarci per circa duecento metri tra gli alberi senza trovare opposizione e finalmente seppellimmo il cadavere dell'uomo che aveva posato per primo piede su quel pianeta. Sparì alla nostra vista in quel cupo silenzio dei morti, mentre tutt'attorno a noi risuonavano le pulsazioni della foresta.
Nel giro di soli cento metri, fummo costretti a seppellirne un altro. L'altro tizio che aveva giocato al tirassegno ormai era rinsavito, vista la fine dell'amico, e si era messo alla testa del gruppo, come a voler fare penitenza per le sue mattane. Ora marciavamo lentamente e con prudenza, gli occhi vigili per cercare di scorgere eventuali indigeni in agguato e i sensi all'erta per non cadere vittime di qualche cespuglio lanciadardi o di qualche ramo vischioso.
L'uomo che procedeva in testa al gruppo deviò attorno a un albero che sovrastava una casa silenziosa e deserta. La sua attenzione però era completamente concentrata sull'entrata aperta di quella casa e non prestò attenzione a un altro albero sotto cui si era spostato. Questo era un albero di medie dimensioni, con una corteccia verde argentea e lunghe foglie ornamentali da cui pendevano cascatelle di sottilissimi fili, le cui estremità arrivavano a un metro dal suolo. L'uomo che marciava in testa al gruppo sfiorò proprio questi fili. Ci fu un intenso lampo di luce azzurra, una puzza di ozono e di peli bruciati e l'uomo cadde a terra, folgorato come se fosse stato centrato in pieno da un lampo scaturito dal cielo.
Nebbiolina o non nebbiolina, lo riportammo indietro di un centinaio di metri e lo seppellimmo accanto al compagno. Appena in tempo. Quando riprendemmo il cammino, quella lebbra strisciante l'avevamo già alle calcagna. Intanto, alto nel cielo quasi nascosto dalla verzura, il sole riversava in basso i suoi raggi limpidi e formava strani disegni tra le foglie sovrastanti.
Dopo essere girati bene al largo da quest'ultimo pericolo, che battezzammo alberovolt, arrivammo in fondo alla via principale della metropoli. Qui sotto un certo aspetto avevamo un vantaggio, per altri versi no. Le case erano disposte in fila ed erano ben spaziate l'una dall'altra, di modo che potevamo marciare bene al centro della strada sotto la striscia scoperta del cielo in modo di essere fuori della portata della bellicosa vegetazione di quel pianeta. Ma questo ci esponeva a possibili attacchi in ogni direzione da parte dei nativi che volessero impedirci di fuggire, ma comunque fosse dovevamo procedere allungando bene il collo per non essere presi alla sprovvista.
Sug Farn mi disse: «Sai, io avrei un'idea che varrebbe la pena di studiare.»
«E cioè?» chiesi, pieno di speranze.
«Pensa se avessimo una scacchiera con dodici caselle per lato,» suggerì. «A questo modo avremmo quattro pedine in più e quattro pezzi principali. Potremmo chiamarli gli "arcieri". Questi pezzi potrebbero spostarsi in avanti di due caselle e mangiare gli avversari diagonalmente avanti di una casella. Non sarebbe un gioco meravigliosamente complicato così?»
«Ma va a fare un bagno!» gli dissi di tutto cuore.
«Come avrei dovuto immaginarmi, hai una mentalità molto limitata,» ribatté lui e, tratto di tasca un flacone di profumo hooloo, che non so come era riuscito a salvare da tutto quel caos, si allontanò da me per annusarlo in maniera deliberatamente offensiva. Ma non me ne frega niente di ciò che dicono certuni... Noi non puzziamo affatto come dicono i marziani! Queste piovre sono degli emeriti bugiardi!
A quel punto Jay Score interruppe la marcia, e anche il nostro litigio, e ringhiò: «Credo che adesso basti.» Poi si scaricò dalle spalle la radio portatile, la sintonizzò e disse al microfono: «Sei tu, Steve?» Una pausa, poi: «Sì, vi stiamo aspettando a circa mezzo chilometro nella radura vicino al fiume. No, non c'è opposizione... per ora almeno. Ma ce ne sarà, ne sono sicuro. OK, aspetteremo.» Un'altra pausa. «Vi guideremo col suono.»
Quindi, rivolse la sua attenzione dalla radio al cielo, ma continuò ad ascoltare tenendo in funzione un auricolare. Anche noi altri ascoltammo. Per un po' non si udì altro che il throb, throb, throb che non era mai cessato un attimo sul mondo folle, ma subito dopo si udì un forte ronzio simile a quello di un calabrone in avvicinamento.
Jay afferrò il microfono. «Ti sentiamo. Ti stai avvicinando.» Il ronzio si fece più forte. «Sei sempre più vicino. Bene così.» Dopo un attimo aggiunse: «Adesso stai deviando troppo di lato.» Il ronzio parve allontanarsi. «Così no, hai virato dalla parte sbagliata.» Un'altra breve attesa. Il lontano ronzio si fece improvvisamente più forte. «Adesso procedi esattamente.» Il ronzio divenne un ruggito. «Bene!» gridò Jay. «Sei quasi su di noi!»
A quel punto Jay Score sollevò ansioso lo sguardo al cielo e anche noi lo imitammo all'unisono. Un istante dopo la lancia attraversò il tratto scoperto di cielo così velocemente da non darci neanche il tempo di tirare un sospiro, ma anche da bordo dovevano averci visti, perché la lancia compì un'ampia ed elegante virata, chiudendola a circa tre chilometri di distanza e tornò indietro a tutta velocità. Questa volta potemmo osservare bene la scena e gridammo come tanti bambini impazziti.
«Ci avete individuati?» chiese Jay al microfono. «Bene, provate al prossimo passaggio.»
Di nuovo la lancia virò, tornò sulla rotta precedente e venne verso di noi molto veloce, simile alla gigantesca palla di un antico cannone. Mentre si avvicinava a noi dal suo ventre caddero numerosi involti e pacchi appesi a paracadute. Quella roba sembrò manna scesa dal cielo, mentre la lancia passava sopra di noi con un rombo e scavava un tunnel nel cielo a nord. Se non fosse stata per questi maledetti alberi, la lancia avrebbe potuto atterrare e portarci tutti fuori pericolo.
Quando arrivarono, ci gettammo avidamente sui rifornimenti. Strappammo gli involucri e ci impadronimmo del contenuto. C'erano tute spaziali per tutti che ci sarebbero ottimamente servite contro ogni tipo di pericoli gassosi. Poi c'erano pistole ben oliate e cariche e un'ampia riserva di pastiglie eccitanti. Inoltre c'era anche una piccola cassa, tutta ben imbottita di gommapiuma che conteneva una mezza dozzina di minibombe atomiche. E non mancavano un grosso flacone di tintura di iodio con un pacchetto di materiale per medicazioni a testa.
C'era anche un grosso involto che si era incastrato tra i rami più alti di un albero, o almeno si era impigliato il suo paracadute, e adesso dondolava in modo allettante dalle funi. Pregando che non contenesse niente di esplosivo, mirammo alle funi con le pistole a raggio e lo portammo a terra. Conteneva un buon rifornimento di razioni concentrate d'emergenza e una latta di quindici litri di succo di pompelmo.
Poi ripiegammo i paracadute, ci mettemmo in spalla le provviste e ci rimettemmo in cammino. Il primo chilometro fu agevole: solo alberi, alberi, alberi e case abbandonate. Fu appunto in quel tratto di percorso che notai come le case fossero sormontate sempre dallo stesso tipo di albero. Nessuna casa infatti era stata costruita attorno a quegli alberi vischiosi o elettrici di cui ormai conoscevamo bene i poteri. Se poi quegli alberi particolari erano innocui nessuno di noi era particolarmente desideroso di scoprirlo, ma fu appunto qui che Minshull scoprì in essi l'origine di quella pulsazione incessante.
Senza badare a McNulty che continuava a chiocciare come una gallina agitata, Minshull entrò in una casa deserta con la pistola pronta a far fuoco in caso di pericolo. Un minuto dopo ne uscì dicendoci che la casa era abbandonata, ma che l'albero al centro della costruzione continuava a pulsare rumorosamente come un tam-tam indigeno. Aveva posto l'orecchio accanto al tronco e ne aveva sentito distintamente il pulsare di quel cuore gigantesco.
Questo diede la stura a una dissertazione di McNulty, il quale si chiedeva se avessimo legalmente il diritto di mutilare o comunque danneggiare gli alberi di quel pianeta. Se infatti si trattava di essere semisenzienti, allora davanti alla legge godevano dello status di indigeni e come tali rientravano nella parte tal dei tali, paragrafo xy del Codice Intercosmico che regolava le relazioni planetarie. Il comandante una volta preso il via ci dette dentro con gusto e senza curarsi minimamente del fatto che avrebbe anche potuto finire bollito nell'olio prima di sera.
Quando a un certo punto fece una pausa per tirare fiato, Jay Score gli disse calmo: «Comandante, forse questa gente ha delle leggi proprie e intende farle applicare.» Così dicendo indicò con la mano la strada.
Io seguii con gli occhi la direzione indicata con tanta calma da lui e mi infilai freneticamente nella tuta spaziale. Adesso ci siamo, pensai! Il lungo braccio della giustizia stava per portarci davanti alla resa dei conti!
VII
Ciò che ci aspettava a circa un chilometro di distanza era un'avanguardia di enormi esseri serpentini lunghi una trentina di metri e spessi quanto un corpo umano. Adesso procedevano contorcendosi verso di noi, ma i loro movimenti erano particolarmente rigidi ed erano privi di sinuosità. Dietro di essi, si muoveva, sempre in modo assai goffo, un piccolo esercito di cespugli dall'apparenza ingannevolmente innocua. E dietro di questi c'era un'orda di indigeni che lanciavano alte grida col coraggio di chi ormai si sente al sicuro. L'avanzata di quell'orda d'incubo era determinata dall'andatura degli oggetti serpentini che procedevano in testa e che strisciavano in maniera tortuosa come se stessero cercando di muoversi un centinaio di volte più veloci di quanto la natura li avesse predisposti.
Stravolti da quello spettacolo orribile ci fermammo. Gli esseri striscianti però continuarono ad avanzare e chissà come riuscivano a dare l'impressione di una tremenda forza che aspettava solo di essere scatenata. Più si avvicinavano, più apparivano grossi e quando furono solo a un centinaio di metri mi resi conto che uno solo di loro avrebbe potuto afferrare sei di noi contemporaneamente e conciarci peggio di quanto un boa constricotr avesse mai conciato una povera capra.
Queste erano le belve di una enorme foresta semi-senziente. Lo capii istintivamente e mentre avanzavano le sentii miagolare debolmente. Queste allora erano le mie tigri verdi, i compagni di quella cosa che i nostri catturatori avevano ucciso nella giungla di smeraldo. Ma evidentemente erano esseri che potevano venir domati e la loro forza sfruttata a proprio vantaggio. E questa tribù c'era riuscita. Sì, decisamente erano più in gamba dei Ka.
«Penso proprio di riuscirci a questa distanza,» disse Jay Score quando la distanza tra noi si fu ridotta a soli sessanta metri.
Con assoluta calma, Jay innescò una bomba atomica che avrebbe potuto perfino distruggere il Marathon, Purtroppo, il punto debole di Jay è che non riesce mai a valutare bene la potenza degli ordigni esplosivi, così continuò a giocherellare con quell'affare in modo che mi fece desiderare che lui fosse dalla parte opposta del cosmo e proprio quando stavo già per scoppiare in lacrime, lo lanciò. Il suo possente braccio destro sibilò nell'aria mentre lanciava la bomba in aria facendole percorrere un ampio arco.
Ci buttammo tutti a terra. Poi la terra si sollevò come la pancia di un ammalato. Enormi grumi di plasma e frammenti di materia verde e fibrosa scaturirono in alto, rimasero un momento sospesi a mezz'aria e poi piovvero tutt'attorno a noi. Ci rialzammo, percorremmo di corsa una trentina di metri e ci buttammo di nuovo a terra mentre Jay scagliava un'altra bomba. Questa mi fece pensare ai vulcani. Lo scoppio quasi mi ridusse a brandelli. Il frastuono era appena cessato quando ricomparve l'astronave che scese in picchiata sulla retroguardia del nemico e mollò anche lì un paio di bombe. Altre esplosioni. Mi si bloccò lo stomaco vedendo quello sfacelo.
«Adesso!» gridò Jay, e afferrato, Jepson, sempre impedito, se lo buttò sulle spalle per poi lanciarsi avanti di corsa. Noi ci lanciammo dietro di lui.
Il nostro primo ostacolo fu un grosso cratere sul cui fondo la terra fumava e in cui si trovavano dei vermi gialli mutilati. Io gli girai attorno e scavalcai con un salto di due metri un pezzo di uno di quei mostri che pur mutilato nella morte continuava a sussultare in modo orribile e spasmodico. C'erano molti altri di quegli esseri mutilati tra noi e il cratere seguente e tutti erano verdissimi e rizzavano sottilissime antenne che vibravano come se volessero cercare la vita che ormai era fuggita via. Coprimmo i trenta metri tra un cratere e l'altro a tempo di record, con Jay sempre in testa nonostante il suo pesante fardello. Io sudavo come un toro nell'arena e ringraziai la mia buona stella per la bassa gravità che ci permetteva di mantenere quell'andatura frenetica.
Di nuovo ci separammo e girammo attorno al bordo del secondo cratere. Questo ci portò proprio faccia a faccia col nemico e dopo fu il caos.
Io fui bloccato da un cespuglio. Purtroppo la mia mentalità da terrestre mi indusse, nonostante tutte le recenti esperienze, a trascurarlo, così gli avevo appena tolto gli occhi di dosso che quello in un baleno si spostò di fianco, mi si avvinghiò alle gambe e mi trascinò a terra. Io caddi prono, illeso, ma continuando a imprecare e quel cespuglio cominciò a spruzzarmi metodicamente la tuta spaziale con una fine polverina grigia. Poi un lungo tentacolo che sembrava di cuoio volteggiò alle mie spalle, mi strappò di dosso il cespuglio e lo fece a pezzi.
«Grazie, Sug Farn!» esclamai. Mi rialzai e tornai nella mischia.
Un secondo vegetale bellicoso crollò sotto il fuoco della mia pistola e il raggio assai potente proseguì per una ventina di metri facendo arrostire un indigeno che continuava a urlare e gesticolare. Sug afferrò un terzo cespuglio e fece anche quello a pezzi con aria sprezzante. La polverina emessa dal vegetale non sembrava fargli assolutamente nulla.
Jay adesso era cinque o sei metri più avanti di me. Si fermò un momento, scagliò una bomba, si lasciò cadere al suolo, si rialzò e riprese a correre, sempre con Jepson saldamente stretto nel braccio sinistro. La lancia ululò sopra di noi, scese in picchiata e fece di nuovo una strage nelle retroguardie del nemico. Un raggio di pistola sprizzò dietro di me, mi sfiorò pericolosamente il casco e incenerì un cespuglio. Mentre procedevo, sentivo nell'auricolare del casco qualcuno che imprecava con costanza. Alla mia destra un grande albero si mise a flagellare l'aria con i rami e poi cadde di schianto, ma non avevo né il tempo né la voglia di stare lì ad esaminarlo.
Poi un serpente afferrò Blaine. Come fosse riuscito a sopravvivere, lui solo tra tutti i suoi compagni ormai annientati, era un mistero, ma il fatto era che giaceva al suolo esattamente come tutti gli altri straziati e fatti a pezzi, ma era ancora tutto intero e quando Blaine fece per scavalcarlo, quel mostro si avvinghiò attorno a lui con tutte le sue spire. Blaine lanciò un urlo orribile nel microfono e fu terribile udire i rumori della sua morte. La sua tuta fu stritolata e tra le pieghe schizzò il sangue. Quelle grida e quella vista mi rivoltarono talmente che mi fermai di colpo e Armstrong che procedeva dietro di me venne a sbattermi contro.
«Va avanti!» ruggì, furioso. Con la sua pistola a raggi tracciò il serpentone verde facendo a brani con furia selvaggia. Poi ci lanciammo avanti, lasciando per forza il cadavere straziato di Blaine dietro di noi.
Ormai avevamo superato le forze frontali e eravamo giunti a contatto con gli indigeni che si erano miracolosamente ridotti di numero. I fragili globi anestetici continuavano a rompersi attorno a noi, ma il loro contenuto gassoso era ormai innocuo grazie alla protezione offertaci dalle tute e comunque correvamo troppo veloci per inalare qualche sbuffo di gas. Io abbattei tre verdoni in rapida successione, e vidi Jay far saltare la testa a un altro senza neanche rallentare l'andatura.
Stavamo già boccheggiando per lo sforzo, quando inaspettatamente il nemico cedette. Gli indigeni superstiti sparirono al sicuro nella foresta proprio mentre la lancia tornava con un ruggito di vendetta. Ormai avevamo strada libera. Senza rallentare minimamente l'andatura, con gli occhi vigili e le armi pronte al fuoco, corremmo in riva al fiume e lì, sul grande spiazzo erboso trovammo il Marathon... la più dolce visione dell'intero cosmo!
Fu qui che Sug Farn ci fece prendere uno spavento del diavolo, perché mentre correvamo gioiosamente verso il portellone aperto, lui ci precedette tutti quanti e ci sbarrò la strada con il mozzicone di un tentacolo, dicendo: «Forse sarebbe meglio se non entrassimo... per ora.»
«Perché no?» chiese Jay. I suoi occhi freddi e luminosi si posarono sul troncone di tentacolo del marziano. «Che diavolo ti è successo?»
«Sono stato costretto a perdere un arto,» disse Sug Farn con la stessa indifferenza di chi potrebbe permettersi di perdere un arto come un cappello. «È stata la polverina. Quella roba è composta da milioni di insetti che penetra dovunque e corrode. E mi stava mangiando vivo. Guardatevi anche voi!»
Accidenti se aveva ragione! Adesso che ci facevo attenzione, vedevo piccoli grumi di polverina grigia che cambiavano forma sulla mia tuta e si muovevano. Presto o tardi la polverina avrebbe corroso il tessuto e avrebbe cominciato ad attaccare... me! Non mi ero mai sentito peggio in tutta la mia vita. Così, mentre tenevamo d'occhio il limitare della foresta, dovemmo sprecare mezz'ora per arrostirci a vicenda le tute con i raggi delle pistole alla massima ampiezza e alla minima potenza. Quando alla fine l'ultima microscopica pulce cadde dalla mia tuta, ero coperto di sudore, e mi sentivo come un tacchino al forno.
Il giovane Wilson colse naturalmente l'occasione per tirare fuori una macchina fotografica e immortalare il comune spidocchiamento decontaminizzante. Queste immagini, lo sapevo bene, avrebbero poi fatto il giro del mondo per essere mostrate a un pubblico comodamente sprofondato in morbide poltrone e ben lontano dai pericoli di Rigel. Dentro di me, sperai in gran segreto che qualcuno di quei microorganismi riuscisse a sopravvivere e a venir portato sulla terra con la pellicola. Poi, Wilson, con aria più ufficiale, scattò delle foto anche alla foresta, al fiume e a un paio di canoe rovesciate con le loro pagaie bivalve in bella mostra. Alla fine, però, riuscimmo a salire a bordo dell'astronave e ringraziammo il destino.
La scialuppa fu issata a bordo e il Marathon decollò istantaneamente. Non credo di avere mai provato quella meravigliosa sensazione da vincitore di un milione di dollari, come nel momento in cui la normale luce risplendente del sole entrò dai portelli e quella biliosa colorazione verdastra sparve dai nostri volti. A fianco di Brennand osservai quello strano mondo assurdo che rimpiccioliva sotto di noi e non posso dire di essermi sentito dispiaciuto di vederlo scomparire.
Jay ci raggiunse e disse: «Sergente, non faremo altre tappe. Il comandante ha deciso di tornare sulla Terra immediatamente per stendere un rapporto completo.»
«Perché?» chiese Brennand facendo un gesto verso il basso. «Ce ne siamo andati senza raccogliere praticamente niente che valesse la pena di riportare a casa!»
«McNulty pensa che abbiamo scoperto già abbastanza.» Il ritmico ronzio dei motori di poppa si udì distintamente nel momento di silenzio che segui. «Ha detto che lui guida una spedizione esplorativa e non dirige un mattatoio. Adesso ne ha avuto abbastanza e sta pensando seriamente di dare le dimissioni.»
«Che testa di legno!» esclamò Brennand con totale mancanza di rispetto.
«Cos'è che abbiamo scoperto, ammesso che abbiamo scoperto qualcosa?» chiesi io.
«Be', adesso sappiamo che la vita su quel pianeta si svolge soprattutto per simbiosi,» rispose Jay. «Ci sono diverse forme di vita che vivono un'esistenza in comune e mettono insieme le loro facoltà. Gli uomini vivono in simbiosi con gli alberi, ognuno con un suo albero particolare. Il trait-d'union è dato da quello strano organo che hanno sul petto.»
«Droghe al posto del sangue,» esclamò Brennand. «Bah!»
«Però,» continuò Jay, «ci sono anche degli esseri superiori ai Ka e a quelli come loro, esseri quasi divini che possono allontanarsi dagli alberi e viaggiare in lungo e in largo, di giorno e di notte, esseri capaci di mungere i loro alberi, trasportare con sé il nutrimento e assorbirlo da ciotole. Questi esseri sono riusciti ad avere la supremazia della simbiosi e, dal punto di vista di questo pianeta, essi solo sono liberi!»
«Però anche gli dei sono caduti!» commentai.
«Non proprio,» mi contraddisse Jay. «Noi ne abbiamo uccisi alcuni, ma non li abbiamo sconfitti. Questo mondo è ancora loro. Noi ci stiamo ritirando con le nostre perdite... e abbiamo ancora Jepson da curare!» Voltò via lo sguardo a quelle parole.
Mi colpì improvvisamente un pensiero e gli dissi: «Ehi, che è successo durante l'assalto all'astronave? E come avete fatto a seguire le nostre tracce?»
«Era una lotta persa in partenza, così siamo decollati,» rispose Jay. «Dopo di che non ci è stato difficile seguirvi.» I suoi occhi risplendevano sempre di una fiamma imperscrutabile, ma giuro che c'era una traccia di umorismo in essi quando continuò dicendo: «Voi avevate Sug Farn con voi e noi avevamo Kli Yang e gli altri.» Si portò la mano alla testa e vi picchiettò sopra allusivamente. «I marziani hanno molto gamishi»
«Oh, la telepatia!» uggiolò Brennand. «Me ne ero completamente scordato. Sug Farn non ha detto neanche una parola!»
«Ciò nonostante,» disse Jay, «Sug Farn è rimasto in costante contatto coi suoi simili!»
Poi Jay imboccò il corridoio e svoltò l'angolo. A quel punto squillò l'allarme e io e Brennand ci abbracciammo come fratelli mentre l'astronave passava alla propulsione Flettner e il mondo verde si riduceva a un puntolino con una rapidità che non mancava mai di stupirmi. Infine ci riprendemmo dal balzo e ci massaggiammo lo stomaco per rimettere in sesto le budella. Quindi Brennand si avvicinò alla valvola della camera stagna, manipolò i comandi e osservò l'indicatore di pressione che saliva da un chilo e mezzo a sette.
«Ci sono i marziani là dentro,» gli feci notare, «e non gradiranno per niente questo scherzo.»
«Non voglio affatto che lo gradiscano. Gli insegnerò io a quei mostricciattoli di gomma a tenermi nascoste le cose!»
«Ma non piacerà neanche a McNulty.»
«E chi se ne frega di quel che piace a McNulty!» strepitò Brennand. In quel momento McNulty in persona girò l'angolo e si avvicinò con imponente dignità e Brennand si affrettò ad aggiungere con voce più forte: «Ma dovresti usare un tono più rispettoso, accidenti, e chiamarlo sempre comandante!»
Insomma, quando dovete fare un viaggio nello spazio, non badate tanto all'astronave... ma sceglietevi con cura la gente con cui dovrete fare il viaggio!
Il sistema ferroso
The Iron Standard
di Lewis Padgett (Henry Kuttner e C.L Moore)
Astounding, dicembre
Che anno per i Kuttner! Oltre i cinque racconti contenuti in questo volume, i due (in alcuni casi separatamente) pubblicarono tra l'altro: Endowment Policy («Astounding», agosto); Gallegher Plus («Astounding», novembre); Ghost («Astounding», maggio); Nothing but Gingerbread Left («Astounding», gennaio); Shock («Astounding», marzo); Open Secret («Astounding», aprile); Time Locker («Astounding», gennaio); e The World ìs Mine («Astounding», giugno). In aggiunta a tutti questi racconti, pubblicarono anche il romanzo a puntate Earth's Last Citadel e sui numeri di agosto e settembre di «Astounding» apparve anche l'interessante romanzo Judgement Night di Catherine Moore.
Il qui presente The Iron Standard è un'eccellente storia sull'argomento della sopravvivenza ed è un esempio particolarmente ben rappresentativo di quella ricca vena di idee che fu sfruttata dagli scrittori di fantascienza attingendo al campo dell'antropologia culturale.
(Nel lontano 1947 partecipai alla Quinta Convention Mondiale della Fantascienza che si tenne quell'anno a Philadelphia, ed era anche la prima cui partecipavo io da quando c'era stata la prima di esse nel 1939. (Nel periodo bellico ne erano state saltate parecchie, le uniche interruzioni di questa lunga serie). In quella Convention si votò per l'«autore preferito» e io finii all'undicesimo posto, una cosa di cui, a quel tempo, fui molto orgoglioso. Se volete sapere chi finì al primo posto, bene, fu proprio lui... Henry Kuttner. - I.A.)
Non era detto che le razze aliene dovessero essere cordiali o nemiche; potevano anche essere ostinatamente indifferenti... e con effetti catastrofici!
«Così il fantasma non camminerà più per un anno... tempo venusiano,» disse Thirkell, raccogliendo una cucchiaiata di fagioli freddi con aria disgustata.
Rufus Munn, il capitano che stava descarafaggiando la minestra, sollevò un attimo lo sguardo dal lavoro in cui era profondamente impegnato. «Non so davvero perché abbiamo dovuto importare questa roba. Un anno più quattro settimane, Steve. E ci vorrà poi ancora un mese di viaggio nello spazio prima di toccare di nuovo la Terra.»
Il viso rotondo e grassoccio di Thirkell si fece solenne. «E che succederà nel frattempo? Moriremo di fame con questi fagioli freddi?»
Munn sospirò, gettando un'occhiata dal portello aperto e schermato dell'astronave Goodwill in direzione di alcune figure indistinte che si muovevano nella nebbiolina là fuori. Ma non rispose. Barton Underhill, carico speciale e uomo tuttofare, che era riuscito a scroccare un passaggio a bordo grazie alla ricchezza del padre, fece un sorriso sforzato e disse: «Che si aspetta? Non usiamo consumare combustibile. Ne abbiamo giusto abbastanza per tornare a casa. Quindi o si mangiano fagioli freddi o niente.»
«E allora vada per niente,» annunciò Thirkell con aria solenne. «Siamo stati degli scialacquatori. Abbiamo sprecato le nostre sostanze per vivere in modo scandaloso!»
«In modo scandaloso!» ringhiò Munn. «Ma se abbiamo regalato la maggior parte dei nostri viveri ai venusiani!»
«Be',» mormorò Underhill, «ci hanno dato da mangiare loro... per un mese.»
«Non adesso. Adesso c'è un embargo. Ma cos'hanno contro di noi, poi?»
Munn spinse indietro il suo sgabello con improvvisa decisione. «Questa è una cosa di cui dovremo cercare di venire a capo. Non si può continuare in questa maniera. Non abbiamo semplicemente viveri sufficienti per sopravvivere un anno intero. E non possiamo neppure vivere coi prodotti della terra...» Si interruppe quando qualcuno fece scorrere la lampo dello schermo della porta stagna e entrò nel locale: un uomo tarchiaticcio con alti zigomi e un naso a becco su un viso terracotta.
«Trovato qualcosa, Pellerossa?» chiese Underhill.
Mike Aquila Veloce gettò un plastisacco sul tavolo. «Sei funghi. Non mi meraviglio più che i venusiani usino culture idroponiche. È indispensabile. Crescono solo funghi su questo mondo spugnoso e la maggior parte di essi sono anche velenosi. Niente da fare, comandante.»
Munn strinse le labbra. «Capisco. Dov'è Bronson?»
«Sta elemosinando. Ma non otterrà neanche un fal.» Il navajo fece un cenno col capo in direzione del portello. «Eccolo che torna.»
Dopo un istante gli altri udirono i passi pesanti di Bronson, poi l'ingegnere entrò nella saletta col viso rosso quanto i suoi capelli. «Non chiedetemi niente,» mormorò. «Non azzardatevi a dire una parola. Io, un originario della contea di Kerry, che cerco di scroccare uno schifosissimo fal da un bastardo dalla pelle zigrinata con un anello di ferro al naso come un selvaggio Ubangi. Pensateci, gente! Sarà un'onta incancellabile.»
«Hai tutta la mia simpatia,» disse Tirkell. «Ma ti sei procurato qualche fal, almeno?»
Bronson gli scoccò un'occhiata incendiaria. «Vi pare che avrei preso le sue schifosissime monete se me le avesse offerte?» gridò l'ingegnere con gli occhi iniettati di sangue. «Glieli avrei sbattuti su quel muso bavoso, e potete credermi. Io toccare i suoi soldi puzzolenti? Datemi dei fagioli.» Afferrò un piatto di portata e cominciò a mangiare tutto ingrugnito.
Thirkell scambiò un'occhiata con Underhill. «Non ha trovato il becco di un quattrino,» osservò il secondo.
Bronson si appoggiò di scatto allo schienale della sedia. «Mi ha chiesto se facevo parte della Gilda dei Mendicanti! Perfino i barboni devono entrare in un sindacato su questo pianeta!»
Il capitano Munn fece una smorfia, pensieroso. «No, non si tratta di sindacato, Bronson, e neppure di una vera e propria gilda come quelle medievali. I tarkomar sono delle organizzazioni molto più potenti e con principi molto più elastici. I sindacati sono nati da un contesto economico e sociale ben definito e adempiono a una precisa funzione, quella di costituire un sistema equilibrato che permetta di continuare a costruire la società. Naturalmente questo non vale per tutti. Sulla Terra ci sono sindacati ottimi, come quelli dei Trasporti Aerei, e quelli disonesti come quello dei Dragatori Sottomarini. I tarkomar, invece, sono diversi. Non hanno uno scopo produttivo. Servono soltanto per tenere immobilizzato il sistema sociale venusiano.»
«Sicuro,» esclamò Thirkell, «e se non ne facciamo parte, non abbiamo il diritto di lavorare... in nessun campo. E non possiamo esserne membri se prima non paghiamo una tassa d'iscrizione... mille sofal.»
«Va adagio con quei fagioli,» lo ammonì Underhill. «Ce ne sono rimaste solo dieci scatolette.»
Ci fu un attimo di silenzio, poi Munn offrì delle sigarette.
«Che bisogna fare qualcosa, questo è certo,» disse. «Non possiamo procurarci viveri all'infuori che dai venusiani e questi non ce ne daranno. Abbiamo solo un punto a nostro favore; le leggi sono così arbitrarie che i venusiani non possono rifiutarsi di venderci dei viveri... infatti è illegale rifiutare della moneta legale.»
Mike Aquila Veloce tirò tristemente fuori i suoi sei funghi. «Sicuro. Sempre che riusciamo a mettere le mani sul valsente. Ma qui su Venere siamo al verde, completamente al verde, e fra poco creperemo di fame. Se qualcuno è così bravo da trovare una risposta a questo...»
Questo avveniva nel 1964, tre anni prima del primo volo riuscito su Marte, cinque anni dopo che Dooley e Hastings avevano atterrato con la loro astronave nel Mare Imbrium. La luna naturalmente era disabitata, vi crescevano solo delle alghe attive, ma non intelligenti. I marziani, esseri svegli, dal petto molto ampio, dotati di un veloce metabolismo e di mente brillante e guizzante, si erano dimostrati amichevoli e era apparso subito chiaro che le due civiltà, quella terrestre e quella marziana, non sarebbero entrate in collisione. In quanto a Venere, però, nessuna astronave vi era fino a quel momento atterrata.
La Goodwill, quindi, era l'ambasciatore della Terra. Quella spedizione era stata un esperimento, come era avvenuto in occasione del primo viaggio su Marte, perché nessuno sapeva se su Venere esistesse o meno una forma di vita intelligente. A bordo erano stati immagazzinati viveri per più di un anno, cibi liofilizzati, plastibulbi, concentrati e vitamine, ma a bordo tutti avevano l'intima convinzione che su Venere avrebbero trovato di che satollarsi con facilità.
E infatti cibo ce n'era, I venusiani lo coltivavano nelle loro vasche idroponiche sotto le città. Ma sulla superficie del pianeta non cresceva assolutamente nulla di edibile. Anche la vita animale e volatile era scarsa, perciò la caccia sarebbe stata impossibile perfino nel caso che ai terrestri fosse stato concesso di conservare le proprie armi. E agli inizi tutto era sembrato davvero una gran festa, dopo il duro viaggio spaziale... una festa lunga un anno in mezzo a una civiltà aliena e affascinante.
Per essere aliena, lo era. I venusiani erano tipi molto conservatori. Ciò che andava bene per i loro lontani antenati doveva andare bene anche per loro. E a quanto sembrava non desideravano che cambiasse niente. L'attuale struttura sociale aveva funzionato ottimamente per secoli e secoli; perché modificarla adesso?
Purtroppo i terrestri erano essi stessi una modifica all'assetto sociale... questo era chiaro.
Risultato: un boicottaggio dei terrestri.
Un boicottaggio condotto all'insegna della passività. Il primo mese non aveva portato nessuna difficoltà. Al capitano Munn erano state offerte le chiavi della capitale, Vyring, alla cui periferia si trovava ora la Goodwill e i venusiani avevano offerto viveri in abbondanza... piatti strani ma gustosi il cui contenuto proveniva dai giardini idroponici. In cambio anche i terrestri avevano attinto generosamente dalle proprie scorte, impoverendole in modo pericoloso.
E i cibi venusiani si deterioravano rapidamente. Non c'era infatti nessun bisogno di conservarli, perché le vasche idroponiche ne producevano costantemente una scorta inesauribile. I terrestri si erano così trovati alla fine con scorte ormai ridotte a poche settimane dei viveri che avevano portato con sé e una montagnola di immondizia che fino a qualche giorno prima erano sembrati tanti deliziosi manicaretti.
Poi i venusiani avevano smesso di rifornirli di frutta, verdure e funghi di carne, tutte cose molto deperibili come si è detto, e avevano chiuso i battenti. La festa era finita. Non avevano nessuna intenzione di far del male ai terrestri, infatti il loro atteggiamento era rimasto assolutamente cordiale, ma da quel momento in poi «pagamento alla consegna»... e niente assegni. Un grosso fungo di carne, sufficiente a riempire quattro uomini affamati costava dieci fal.
Ma dal momento che i terrestri non avevano neanche il becco di un fal, non avrebbero ricevuto né funghi né altri generi alimentari.
All'inizio la cosa non era sembrata importante. Non lo era sembrata fin quando non avevano cominciato a esaminare la situazione e avevano cominciato a chiedersi esattamente come avrebbero fatto a procurarsi dei viveri.
Non c'era nessun modo.
Così adesso sedevano sulla Goodwill mangiando fagioli freddi e sembravano cinque dei Sette Nani, cinque omaccioni robusti, tutti ossa e muscoli, scelti appunto per il loro fisico resistentissimo ai rigori del volo spaziale... ma neppure i loro cervelli, anch'essi scelti con cura, non li potevano minimamente aiutare.
Era davvero un problema semplicissimo... semplicissimo e primitivo. Loro, i rappresentanti della più potente civiltà terrestre, avevano una fame da lupo. E fra poco ne avrebbero avuta ancora di più.
Purtroppo, come si è detto, non avevano il becco di un fal... avevano solo dell'inutilissimo oro e argento e cartamoneta. È vero che nell'astronave c'era del metallo, ma non c'era allo stato puro il metallo che serviva loro, c'erano solo delle leghe che non potevano essere scomposte.
Perché su Venere vigeva il sistema ferroso.
* * *
«... eppure ci deve essere una risposta,» commentò ostinato Munn, col viso duro e truce. Con un gesto d'irritazione spinse indietro il piatto. «Tornerò a parlare col Consiglio.»
«E a che ti servirà?» volle sapere Thirkell. «Siamo fregati, inutile cercare di rigirare la frittata. Quel che conta sono i soldi.»
«Non fa niente. Andrò lo stesso a parlare con Jorust,» ringhiò il capitano. «Quella donna non è stupida.»
«Infatti,» osservò enigmaticamente Thirkell.
Munn lo fissò acutamente, poi fece un cenno a Mike Aquila Veloce e si voltò verso la valvola. Underhill saltò in piedi volonteroso.
«Posso venire anch'io?»
Bronson si mise a giocare truce coi suoi fagioli. «Perché diavolo vuoi andare anche tu? Tu non sapresti neppure cavartela con una slot-machine nel quartiere malfamato di Vyring, ammesso che avessero quelle macchine. Ma credi forse che se gli vai a raccontare che tuo padre è un magnate della Amalgamated Ores, si commuoveranno e ti passeranno i buoni per la mensa... eh?»
Ma nonostante le, parole il suo tono era abbastanza cordiale e Underhill si limitò a sorridere. Il capitano Munn disse: «Se vuoi venire vieni, ma sbrigati.» I tre uomini uscirono in mezzo alla nebbiolina di vapore che aleggiava nell'aria e i loro piedi ciangottarono nel fango appiccicoso.
Il caldo non era poi così insopportabile e i forti venti di Venere fornivano una rapida evaporazione, una forma di condizionamento naturale che impediva ai terrestri di sentire troppo l'umidità. Munn fece ricorso alla propria bussola. La periferia di Vyring era a meno di un chilometro di distanza, ma la nebbia come al solito era densissima. Su Venere era sempre così. I tre si misero a scarpinare in silenzio.
«Io credevo che gli indiani sapessero come procurarsi da mangiare coi prodotti della terra,» osservò un istante dopo Underhill, rivolto al navajo. Mike Aquila Veloce lo guardò interrogativamente.
«Io non sono un indiano venusiano,» gli spiegò. «Forse riuscirei anche a costruire un arco con delle frecce ed abbattere un venusiano... ma anche questo servirebbe a poco se poi non avesse le tasche piene di sofal.»
«Potremmo magari mangiarlo,» mormorò Underhill. «Chissà che sapore avrebbe un arrosto di venusiano?»
«Se lo scopri, quando tornerai a casa potrai scrivere un best-seller.» osservò Munn. «Se tornerai, cioè. Vyring ha anche una forza di polizia, amico.»
«Oh, be',» fece Underhill e non finì la frase. «Eccoci alla Chiusa. Oh, signore... che profumino di cucina che si sente!»
«Lo sento anch'io,» grugnì il navajo, «ma speravo che nessuno ne accennasse. Adesso zitto e cammina.»
Il muro che circondava Vyring era più una diga che una fortificazione. Venere infatti era un pianeta civile e unificato; e a quanto sembrava non c'erano né guerre né pedaggi... una conseguenza naturale per uno stato mondiale. Gli apparecchi di trasporto aereo fecero dei rumori sfrigolanti quando sbucarono dalla nebbia sopra di loro. Anche le strade erano invase dalla nebbia, dissipata a tratti da enormi ventilatori. Vyring, che era riparata dai venti, aveva un clima molto caldo e sgradevole, fatta eccezione all'interno delle abitazioni dove si potevano utilizzare degli impianti ad aria condizionata.
Quella città a Underhill ricordava Venezia: le strade infatti erano i canali e sull'acqua barche di varie fogge e dimensioni filavano via veloci o andavano lentamente alla deriva o solcavano placidamente la superficie. Perfino i mendicanti viaggiavano per via d'acqua. Accanto ai canali c'erano anche degli scomodi sentieri fangosi, ma solo chi non possedeva proprio neanche un fal se ne serviva.
I terrestri si servirono appunto di questi sentieri e imprecarono con fervore mentre camminavano nel fango fino alla caviglia. Per lo più, i venusiani li ignorarono.
Solo un taxi d'acqua scivolò verso la riva e il pilota, che portava il distintivo azzurro del suo tarkomar, li salutò: «Posso scortarvi da qualche parte?» volle sapere.
Underhill tirò fuori di tasca un dollaro d'argento. «Se ti accontenti di questo... certo.» Tutti i terrestri avevano rapidamente imparato il venusiano in quanto erano buoni linguisti ed erano stati appunto scelti anche per questa loro dote, oltre a molte altre di importanza interplanetaria. In quanto alla fonetica, la lingua venusiana non presentava nessuna difficoltà.
Non fu quindi loro difficile capire il taxista quando questi rispose picche.
«Tiriamo la moneta,» propose Underhill speranzoso. «Il doppio o niente.»
Ma i venusiani non amavano giocare d'azzardo. «Il doppio di cosa?» chiese il pilota. «Di quella moneta? Ma è d'argento.» Con la mano indicò la decorazione argentea rococò sulla prua della sua imbarcazione. «Ciarpame!»
«Questo sarebbe proprio il posto giusto per Benjamin Franklin,» osservò Mike Aquila Veloce. «La sua dentiera era in ferro, vero?»
«Se lo era, aveva una fortuna in bocca, almeno secondo gli standard venusiani,» osservò Underhill.
«Be', non proprio.»
«Se era sufficiente per acquistare un pranzo completo era una fortuna,» insistette Underhill.
Il pilota gettò ai terrestri un'occhiata dispregiativa e si allontanò in cerca di clienti più danarosi. Munn continuò a camminare con ostinazione, mentre si tergeva il sudore dalla fronte. Davvero un bel posto quella Vyring, pensò. Un posto bellissimo in cui morire di fame.
Mezz'ora di percorso disagiato fu sufficiente per suscitare una certa collera in Munn. Se Jorust si fosse rifiutata di riceverlo, pensò, ci sarebbe scappato qualche guaio, anche se i venusiani avevano portato loro via le armi. In quel momento si sarebbe sentito capace di distruggere tutta Vyring coi denti... e di mangiarsi tutto ciò che era masticabile, naturalmente.
Fortunatamente Jorust era disposta a riceverli. I terrestri furono accompagnati nel suo ufficio, una grande e lussuosa stanza a grande altezza al di sopra della città, con le finestre aperte da cui entrava un venticello rinfrescante. Jorust si aggirava per l'ufficio su una sedia a rotelle dotata di motore. Lungo le pareti correva un ripiano leggermente inclinato che assomigliava a una scrivania e probabilmente adempiva alla stessa funzione. Il ripiano arrivava all'altezza delle spalle dei terrestri, ma la sedia di Jorust era molto alta, così che per lei era all'altezza giusta. Munn pensava che probabilmente la donna iniziasse a lavorare al mattino in un angolo e poi continuasse a lavorare facendo tutto il giro della stanza nell'arco della giornata.
Jorust era una venusiana slanciata dai capelli grigi e con una pelle finemente zigrinata e occhi neri e svegli che ora esprimevano una certa cautela. Quando i terrestri entrarono, lei scese dalla sedia e indicò loro di sedersi, accomodandosi anche lei su un puf. Poi si accese una pipa che assomigliava a un bocchino gigante e la riempì con un cilindro di erbe gialle compresse. Nell'aria si levò un profumo aromatico. Underhill lo fiutò con desiderio.
«Che siate degni dei vostri padri,» augurò loro educatamente Jorust, tendendo la mano con sei dita in segno di saluto. «Qual motivo vi porta qui?»
«La fame,» rispose Munn senza tergiversare. «Credo sia giunto il momento di mettere le carte in tavola.»
Jorust lo osservò con sguardo inscrutabile. «Ebbene?»
«Non ci piace essere presi in giro.»
«Vi abbiamo forse fatto del male?» chiese il capo del Consiglio.
Munn la guardò. «Non giochiamo con le parole. Ci state rendendo la vita impossibile. E lei che qui è un pezzo grosso o ne è la responsabile o sa perché succede tutto questo. Cosa mi risponde?»
«No,» rispose Jorust dopo un attimo di silenzio. «No, io non sono affatto così potente come lei pare pensare. Io sono solo uno degli amministratori in carica. Non sono io che faccio le leggi, il mio compito è semplicemente quello di accertarmi che vengano osservate. Noi non siamo nemici.»
«Ma potremmo diventarlo,» disse Munn severo. «Se un giorno arrivasse un'altra spedizione dalla Terra e ci trovasse morti...»
«Noi non vi uccideremmo mai. È contro le nostre tradizioni.»
«Però potreste farci morire di fame.»
Gli occhi di Jorust si restrinsero. «Comperatevi da mangiare. Chiunque può farlo, indipendentemente dalla sua razza.»
«E cosa potremmo usare come denaro?» chiese Munn. «Voi non siete disposti ad accettare la nostra moneta. E noi non ne abbiamo qui della vostra.»
«La vostra moneta non vale niente,» spiegò Jorust. «Noi qui abbiamo tutto l'oro e l'argento che vogliamo... è piuttosto comune da noi. Ma con un difal, dodici fal, potrete comperare molti viveri. E con un sofal ancora di più.»
Naturalmente aveva ragione e Munn lo sapeva. Un sofal valeva ben millesettecentoventotto fal. Proprio così.
«E come vi aspettate che ci procuriamo il ferro che da voi viene considerato come denaro?» scattò Munn.
«Lavorate per procurarvelo, come fa la nostra gente. Il fatto che proveniate da un altro pianeta non vi esenta dal dovere di creare qualcosa tramite il lavoro.»
«Di che genere?»
«Drenaggio dei canali. Qualsiasi cosa!»
«Lei è forse membro del tarkomar dei drenatori di canali?»
«No,» rispose Munn. «Come ho fatto a dimenticarmi di iscrivermi?»
Jorust ignorò il sarcasmo. «Lei deve però iscrivermi. Qui tutte le attività hanno un proprio tarkomar.»
«Se mi presta mille sofal, mi iscriverò subito.»
«Questo avete già tentato di farlo,» gli disse Jorust. «Tutti i nostri usurai hanno però riferito che le garanzie da voi offerte non hanno il minimo valore.»
«Non hanno il minimo valore! Vuol dire che a bordo della nostra astronave non abbiamo nulla che possa valere mille sofal per la vostra razza? Questo significa farci girare intorno e lo sa benissimo. Solo il nostro purificatore d'acqua vale per voi almeno sei volte tanto!»
Jorust sembrò quasi offendersi. «Da mille anni purifichiamo la nostra acqua per mezzo di filtri di carbone. Se cambiassimo sistema adesso, sarebbe come dare degli stupidi ai nostri antenati. Ma loro non erano affatto stupidi, erano grandi e saggi.»
«E il progresso?»
«Non ne vedo la necessità,» disse Jorust. «La nostra civiltà è perfetta così com'è. Perfino i mendicanti sono ben nutriti. Non esiste l'infelicità su Venere. I sistemi dei nostri antenati sono stati messi alla prova e giudicati buoni. Quindi, perché cambiare?»
«Ma...»
«Se alterassimo questo equilibrio, non faremmo che sconvolgere lo status quo,» affermò con decisione Jorust, alzandosi in piedi. «Che siate degni dei vostri padri.»
«Ascolti...» cominciò Munn.
Ma Jorust era tornata sulla sua sedia e non prestava più attenzione a lui.
I tre terrestri si guardarono in faccia, scrollarono le spalle e uscirono. La risposta era stata un secco no.
«E questo,» osservò Munn mentre scendevano con l'ascensore, «è quanto. Jorust ha l'intenzione di farci morire di fame. E si sono passati parola.»
Underhill non era però d'accordo. «Quella donna però non ha tutti i torti. Come ha detto lei è solo un amministratore. Sono i tarkomar che formano i gruppi di pressione qui. E sono un blocco di granito.»
«Lo so anch'io che sono loro a comandare su Venere,» disse Munn con una smorfia. «È difficile capire la psicologia di questa gente. Sembrano così impervi ad ogni cambiamento. E noi rappresentiamo un cambiamento. Così hanno pensato di limitarsi a ignorarci.»
«Non funzionerà,» disse Underhill. «Anche se ci lasciassero morire di fame, in futuro arriveranno altre astronavi dalla terra.»
«Potrebbe funzionare lo stesso trucchetto anche con loro.»
«La morte per fame? Ma...»
«Resistenza passiva. Non c'è nessuna legge che costringa i venusiani a trattare con i terrestri. Così si limitano ad adottare una politica della porta chiusa e noi non possiamo farci assolutamente nulla. Su Venere non c'è lo zerbino con scritto "benvenuti" davanti alla porta.»
Mike Aquila Veloce ruppe il lungo silenzio mentre uscivano sulla riva del canale. «La loro psicologia è semplicemente una variante dell'adorazione degli antenati. Un trasferimento di egoismo, forse... un complesso razziale di inferiorità.»
Munn scosse la testa. «Mi sembra che sia un po' tirata per i capelli come conclusione.»
«Può darsi benissimo. Ma tutto questo si riduce all'adorazione del passato. E alla paura. La loro attuale civiltà sociale funziona così da secoli. Quindi non vogliono intrusioni. Ed è logico. Se lei avesse a disposizione una macchina che svolge perfettamente la funzione per cui è stata creata, vorrebbe forse dei miglioramenti?»
«Perché no?» fece Munn. «Certo che li vorrei.»
«Perché?»
«Be', per risparmiare tempo. Se ci fosse qualche nuova aggiunta che mi permettesse di far raddoppiare la produzione alla macchina, la vorrei.»
Il navajo apparve pensieroso. «Mettiamo che quella macchina producesse diciamo dei frigoriferi. Ci sarebbero delle ripercussioni. Lei avrebbe bisogno di minor lavoro e questo sconvolgerebbe l'economia.»
«In modo microscopico.»
«In questo caso. Ma ci sarebbero dei cambiamenti anche dal punto di vista dei consumatori. Ci sarebbero più persone che disporrebbero di frigoriferi. Ci sarebbe più gente che si farebbe il gelato in casa. Le vendite dei gelati crollerebbero... le vendite al dettaglio, almeno. Ma i grossisti comprerebbero meno latte e i contadini...»
«Lo so,» disse Munn. «Il regno andò perduto solo perché mancava un chiodo. Ma tu stai parlando di microcosmi. E anche se così non fosse, ci sarebbero delle compensazioni automatiche... ci sono sempre state.»
«Una civiltà sperimentale in espansione è ben disposta a ricorrere a queste compensazioni,» fece notare Mike Aquila Veloce, «ma i venusiani sono ultraconservatori. Secondo loro non hanno più bisogno di crescere né di modificarsi. Il loro sistema funziona così da secoli. E perfettamente integrato. Una minima intrusione potrebbe mandare all'aria baracca e burattini. Il potere è tutto in mano ai tarkomar e questi non sono minimamente intenzionati a mollarlo.»
«E così noi crepiamo di fame,» concluse Underhill.
L'indiano gli sorrise. «Sembra proprio di sì. A meno che non riusciamo a escogitare il modo di far quattrini.»
«Dovremmo riuscirci,» osservò Munn. «Dopo tutto ci hanno scelto per il nostro quoziente di intelligenza, tra le altre cose.»
«I nostri talenti non sono molto utilizzabili,» fece notare Aquila Veloce gettando un sasso nel canale con un calcio. «Lei è un fisico. Io sono un naturalista. Bronson è un ingegnere meccanico e Steve Thirkell un segaossa. E tu, mio inutile amico sei il figlio di un riccone.»
Underhill sorrise piuttosto imbarazzato. «Be', papà si è fatto strada lottando con le unghie e coi denti. Lui sapeva come fare i soldi. E sono proprio questi che ci servono adesso, no?»
«Come ha fatto ad accumularli?»
«Giocando in borsa.»
«Questo sì che ci aiuta,» fece Munn. «Io penso che la cosa migliore sia scoprire qualcosa di cui i venusiani abbiano veramente bisogno e poi vendergliela.»
«Se solo potessimo chiedere aiuto alla Terra...» cominciò Underhill.
«...allora sì che non avremmo di che preoccuparci,» terminò il navajo. «Purtroppo Venere ha attorno a sé una Fascia di Heaviside che impedisce le comunicazioni radio. Sarà meglio che cerchi di escogitare qualcosa, comandante. Ma che poi i venusiani la vogliano o no, questo non lo so proprio.»
Munn ci rifletté sopra. «Lo status quo non può rimanere fisso in eterno. Non ha senso, come diceva sempre mio nonno riguardo quasi ogni cosa.
Ci sono sempre gli inventori. I nuovi processi devono per forza venire assimilati in un contesto sociale. Io dovrei riuscire a escogitare qualche apparecchio utile. Perfino qualcosa per conservare i viveri dovrebbe andare benissimo.»
«Ci sono le colture idroponiche che producono sempre roba fresca e in quantità.»
«Uhm... una trappola per topi perfezionata... qualcosa di inutile, ma avvincente. Una slot-machine, magari...»
«Emanerebbero una legge per metterle al bando.»
«Be', provi lei a suggerire qualcosa.»
«I venusiani non sembrano sapere molto sulla genetica. Se riuscissimo a produrre qualche frutto insolito per mezzo di incroci... eh?»
«Perché no?» fece Munn. «Perché no?»
Dal portello apparve il viso grassoccio di Steve Thirkell. Gli altri erano seduti attorno al tavolo e scribacchiavano sui loro stiloblocchi, bevendo caffè allungato.
«Io ho un'idea,» disse Thirkell.
Munn grugnì: «Conosco le tue idee. Che c'è adesso?»
«È molto semplice. Pensi a un virus che colpisce i venusiani, io trovo un antidoto e li salvo. Così loro ci sono grati e...»
«...e tu sposerai Jorust e governerai il pianeta,» terminò Munn. «Bah!»
«Non esattamente,» continuò Thirkell imperturbabile. «Se non ci saranno grati, ci limiteremo a non mollare l'antitossina finché non avranno pagato in contanti.»
«L'unico punto debole di tutto il discorso,» osservò Mike Aquila Veloce, «è che a quanto pare non c'è nessuna epidemia in circolazione. Per il resto sarebbe perfetto.»
Thirkell sospirò. «Temevo proprio che uscissi con quell'osservazione. Ma si potrebbe anche lasciar perdere l'etica, in parte almeno, e scatenare un'epidemia. Di tifo o altro.»
«Che uomo!» esclamò il navajo con ammirazione. «Sai, saresti un grande assassino, Steve.»
«Ci ho pensato spesso. Ma non intendo arrivare all'assassinio. Basterebbe una malattia dolorosa e incapacitante.»
«Per esempio?» chiese Munn.
«La difterite?» suggerì speranzoso il medico dagli istinti omicidi.
«Che allegra prospettiva,» mormorò Mike Aquila Veloce. «Parli come un apache.»
«Difterite, beriberi, lebbra, peste bubbonica.» esclamò Pat Bronson con violenza. «Io voto a favore di tutte quante. Facciamogli un po' ingoiare la loro stessa medicina a questi ranocchi schifosi. Diamogli una lezione.»
«Supponiamo per un momento di lasciarti scatenare una leggera forma epidemica,» disse Munn. «Qualcosa che non debba essere fatale... come procederesti?»
«Inquinando le riserve d'acqua o qualcosa del genere... no?»
«Con che cosa?»
Thirkell apparve improvvisamente abbattuto. «Oh! Oh!»
Munn fece un cenno d'assenso. «Proprio così. La Goodwill non ha scorte di germi. Anzi, ne siamo totalmente privi. Siamo asettici dentro e fuori. Hai già dimenticato il trattamento sanitario cui ci hanno sottoposto prima della partenza?»
Bronson si mise a imprecare. «Non me lo scorderò mai... un'iniezione ogni ora! Antitossine, vaccini, raggi ultravioletti, raggi X...»
«Proprio così,» confermò Munn. «E adesso siamo praticamente privi di germi. Hanno preso questa precauzione per impedirci di scatenare qualche epidemia su Venere.»
«Ma noi vogliamo farlo,» piagnucolò Thirkell.
«Tu non riusciresti neppure ad attaccare un raffreddore ai venusiani,» ribatté Munn. «Perciò questo piano è fuori discussione. Come sono gli anestetici venusiani? Sono efficaci quanto i nostri?»
«Anche migliori,» ammise il medico. «Non che ne abbiano bisogno, li usano solo per i bambini. Le loro sinapsi sono ben strane. I venusiani sanno servirsi dell'autoipnosi e in questo modo quando è necessario riescono a bloccare il dolore.»
«Sulfamidici?»
«Ci ho pensato. Li hanno già.»
«Io penserei piuttosto all'energia dell'acqua,» intervenne Bronson. «O alle dighe. Dovunque piove ci sono inondazioni.»
«Hanno però un ottimo sistema di drenaggio,» osservò Munn. «I canali funzionano perfettamente.»
«Mi lasci finire! Questi dannati pescioni hanno l'energia idrica, ma non la utilizzano in modo efficiente. Hanno tanta di quell'acqua dappertutto che si limitano a costruire impianti dove gli sembra meglio, a migliaia, e per metà del tempo gli impianti rimangono poi inutilizzati, quando le piogge si concentrano in un altro distretto. E metà degli impianti sono sempre inutilizzabili. Tutto questo costa denaro. Se invece costruissero delle dighe avrebbero una fornitura costante di energia senza quei pazzeschi e costosi sprechi.»
«Vale la pena di pensarci su,» riconobbe Munn.
Mike Aquila Veloce disse: «Io continuo a pensare ai miei incroci nei giardini idroponici. Potrei coltivare dei funghi bistecca al gusto della salsa Worchestershire o vattelapesca. Una delizia irresistibile per il palato...»
«Giusto. Steve?»
Thirkell si scompigliò i capelli. «Penserò anch'io qualcosa. Ma non fatemi fretta.»
Munn guardò Underhill. «Qualche lampo di genio, amico?»
Il giovane fece una smorfia. «Per il momento no. Tutto quel che mi viene in mente riguarda il gioco di borsa.»
«Senza soldi?»
«È proprio questo il guaio.»
Munn annuì col capo. «Bene, la mia idea invece riguarda la pubblicità. Dal momento che sono un fisico, sarà una forma di pubblicità nel mio campo.»
«E come?» volle sapere Bronson. «Vuol dare una dimostrazione della frantumazione dell'atomo? Oppure uno spettacolo dell'uomo forte?»
«Calma. Qui su Venere non conoscono la pubblicità, anche se fanno del commercio. Questo è strano. Direi quindi che i dettaglianti dovrebbero afferrare al volo questa possibilità.»
«Hanno degli annunci radio.»
«Stilizzati e ritualistici. I loro televisori invece potrebbero ospitare della pubblicità visiva... qualcosa d'impatto... sì. Potrei inventare dei begli apparecchietti per dare dimostrazione dei prodotti. Perché no?»
«Io penso a costruire una macchina a raggi X,» disse improvvisamente Thirkell. «Se lei mi dà una mano, comandante.»
Munn lo garantì. «Abbiamo i macchinari e le cianografiche. Cominceremo domani stesso. Ormai deve essere tardi.»
Infatti lo era anche se su Venere non esistevano tramonti. I cinque terrestri si ritirarono per la notte, sognando tavole imbandite e banchetti favolosi, tutti fatta eccezione per Thirkell, il quale sognò che stava mangiando un pollo arrosto che si trasformò improvvisamente in un venusiano che cominciò a divorarlo cominciando dai piedi. Thirkell si svegliò tutto sudato e imprecando prese del nembutal e alla fine si rimise a dormire.
Il mattino dopo ognuno andò per la sua strada. Mike Aquila Veloce portò un microscopio e altri oggetti al più vicino centro idroponico e si mise al lavoro. Non gli fu permesso di riportare delle spore sulla Goodwill, ma nessuno mosse obiezioni al suo desiderio di fare esperimenti all'interno di Vyring. Così preparò delle colture e utilizzò dei complessi vitaminici per la crescita rapida e sperò per il meglio.
Pat Bronson andò a trovare Skottery, il responsabile dell'Energia Idrica. Skottery era un venusiano alto e taciturno che la sapeva lunga sull'ingegneria e che insistette a lungo per mostrare a Bronson i modelli che aveva in ufficio prima di sedersi al tavolo per discutere.
«Quante centrali idriche avete?» gli chiese Bronson.
«La terza potenza di dodici volte quattro, dozzine. Quarantadue dozzine in questo distretto.»
Circa un milione complessivamente, calcolò Bronson. «E quante sono realmente in funzione?» continuò.
«Circa diciassette dozzine.»
«Questo significa che ce ne sono trecento inoperanti... venticinque dozzine, cioè. Non sono un po' troppe?»
«In effetti sì,» riconobbe Skottery. «A parte il fatto che alcune di queste centrali sono ormai permanentemente inoperanti. Il terreno muta con rapidità per via dell'erosione. Un anno costruiamo una centrale su una cascata e un anno dopo ecco che l'acqua prende una strada del tutto diversa. Costruiamo circa una dozzina di centrali al giorno, ma naturalmente recuperiamo anche parte degli impianti da quelle vecchie.»
Bronson ebbe un lampo di genio. «Niente bacini idrografici?»
«Eh?»
Il terrestre spiegò di cosa si trattava. Skottery scrollò le spalle in segno di diniego.
«Noi qui abbiamo un tipo di vegetazione diversa. C'è tanta di quell'acqua che le radici non hanno necessità di andare molto a fondo.»
«Ma hanno bisogno di terra?»
«No. Gli elementi che servono loro si trovano in sospensione nell'acqua.»
Bronson passò a descrivere come funzionavano i bacini idrografici. «Immagini di importare alberi e piante dalla Terra per mettere a foreste le montagne. E di costruire delle dighe per trattenere l'acqua. In questo modo avreste energia in ogni momento e vi occorrerebbero solo un certo numero di grandi centrali. Che sarebbero inoltre permanenti.»
Skottery ci pensò sopra. «Abbiamo tutta l'energia che ci serve.»
«Ma guardi che spese!»
«Le nostre tariffe le coprono bene.»
«Potreste guadagnare molto più denaro... difal e sofal...»
«Noi abbiamo fatto esattamente gli stessi profitti per trecento anni,» spiegò Skottery. «Il guadagno netto rimane costante. Un sistema perfetto. Il fatto è che lei non comprende il nostro sistema economico. Dal momento che abbiamo tutto quel che ci serve, non abbiamo bisogno di guadagnare di più... neanche un fal di più.»
«Ma la concorrenza...»
«Abbiamo solo tre concorrenti e tutti sono soddisfatti dei loro profitti.»
«E se andassi a interessarli col mio piano?»
«Non otterrebbe niente,» rispose Skottery in tono paziente. «Loro non sarebbero più interessati di me. Ma sono lieto che sia venuto a farmi visita. Che lei sia degno del nome di suo padre.»
«Dannati pesci senz'anima!» gridò Bronson, perdendo alla fine la pazienza. «Ma non avete proprio del sangue caldo nelle vostre carcasse verdi? Su questo pianeta non c'è proprio nessuno che sappia cosa vuol dire combattere?» Si batté un pugno sul palmo della mano. «Non sarei degno del nome del vecchio Seumas Bronson se non le dessi un bel pugno sul muso...»
Skottery premette un pulsante. Apparvero due massicci venusiani. Il responsabile dell'Energia Idrica indicò loro Bronson.
«Toglietelo di qua,» disse.
Il capitano Rufus Munn si trovava in uno degli studi televisivi con Bart Underhill e in quel momento i due sedevano accanto a Hakkapuy, proprietario della Veetsy... che poteva essere liberamente tradotto con Formicolii Umidi. Adesso stavano osservando un annuncio commerciale per il prodotto di Hakkapuy sullo schermo visore ben alto sul muro.
Ed ecco apparire un venusiano a gambe divaricate e con le braccia sui fianchi. Il venusiano sollevò una mano mettendo bene in mostra le sei dita.
«Tutti gli uomini bevono acqua. L'acqua è buona. La vita ha bisogno dell'acqua. Anche la Veetsy è buona. Con quattro fal si compera un globo di Veetsy. È tutto.»
Il venusiano svanì e una marea di colori invase lo schermo mentre si udiva una musica sincopata. Munn si rivolse a Hakkapuy.
«Questa non è pubblicità. Non ci si fanno certo dei clienti così.»
«Be', è la tradizione,» si difese debolmente Hakkapuy.
Munn aprì il pacco che aveva ai piedi, ne tolse un bicchiere affusolato e chiese un globo di Veetsy. Quando glielo passarono ne vuotò il fluido verde nel bicchiere. Dopo di che, vi lasciò cadere dentro una mezza dozzina di palline colorate e aggiunse un pezzo di ghiaccio secco che andò a fondo. Le palline si misero ad andare rapidamente su e giù.
«Vede?» disse Munn. «Effetto visivo. Le palline sono solo leggermente più pesanti del Veetsy. Ed è l'equivalente visivo dei Formicolii Umidi. Lo faccia vedere alla televisione con un buon commento sonoro e vedrà che balzo all'insù faranno le vendite.»
Hakkapuy parve interessato. «Non saprei...»
Munn tirò fuori un fascio di carte e cominciò a battere sulla breccia che era riuscito a scalfire. Dopo un po' arrivò anche un grasso venusiano che disse: «Che lei sia degno dei nomi dei suoi antenati.» Hakkapuy glielo presentò col nome di Lorish.
«Ho pensato che sarebbe meglio che vedesse anche Lorish quel che mi ha mostrato. Le spiacerebbe ricominciare da capo?»
«Oh, certo,» disse Munn. «Ora, il principio delle vetrine da esposizione...»
Quando ebbe finito, Hakkapuy guardò Lorish che scrollò lentamente le spalle.
«No,» disse il grosso venusiano.
Hakkapuy sporse le labbra. «Ma potrebbe far vendere di più il Veetsy.»
«E sconvolgerebbe l'assetto economico,» rispose Lorish. «No.»
Munn gli scoccò un'occhiata incendiaria. «Perché no? È Hakkapuy il proprietario del Veetsy, no? E poi, lei chi sarebbe... un censore, forse?»
«Io rappresento il tarkomar dei pubblicitari,» spiegò Lorish. «Vede, la pubblicità su Venere è un rituale importante. E non lo si è mai cambiato. Perché dovremmo farlo? Se permettessimo a Hakkapuy di sfruttare le sue idee, ciò non sarebbe giusto nei confronti degli altri produttori di bibite.»
«Potrebbero fare anche loro la stessa cosa,» fece notare Munn.
«E si avrebbe una concorrenza piramidale che terminerebbe con un crollo generale. Hakkapuy guadagna già abbastanza denaro. Non è così, Hakkapuy?»
«Penso di sì.»
«Vorreste mettere in dubbio la ragione dei tarkomar?»
Hakkapuy deglutì faticosamente. «Oh, no,» disse in fretta. «No, no, no! Lei ha perfettamente ragione.»
Lorish lo guardò. «Molto bene. In quanto a lei, terrestre, farà meglio a non cercare di portare avanti questo suo... piano.»
Munn si imporporò. «Mi sta minacciando?»
«Naturalmente no. Voglio semplicemente avvertirla che nessuno potrà fare della pubblicità sfruttando la sua idea senza prima consultare il mio tarkomar, e noi metteremmo senz'altro un veto.»
«Certo,» disse Munn. «Okay. Su, andiamo Bart. Togliamo il disturbo.»
Uscirono dal palazzo e si misero a camminare lungo la riva di un canale, discutendo. Underhill era pensieroso.
«A quanto sembra, i tarkomar detengono da un sacco di tempo l'equilibrio del potere. E vogliono che le cose rimangano così come sono. È chiaro.»
Munn grugnì.
Underhill continuò: «Se vogliamo arrivare da qualche parte, dobbiamo quindi buttare all'aria baracca e burattini. C'è una cosa a nostro favore, però.»
«Quale?»
«Le leggi.»
«Ma cosa dici?» chiese Munn stupito. «Se sono tutte contro di noi.»
«Finora sì... ma sono leggi tradizionalmente rigide che non ammettono eccezioni. Una decisione presa trecento anni fa non può essere modificata che mediante un lungo processo in tribunale. Se riuscissimo a trovare una scappatoia in queste leggi, non potrebbero toccarci.»
«D'accordo, allora trova la scappatoia,» disse Munn, ingrugnito. «Io torno all'astronave e aiuterò Steve a costruire il suo apparecchio a raggi X.»
«Io farò invece un salto alla borsa per dare un'occhiata in giro,» disse Underhill. «Non si sa mai.»
Dopo una settimana l'apparecchio a raggi X fu terminato. Munn e Thirkell spulciarono i codici di Vyring e scoprirono che era loro permesso di vendere apparecchiature create in proprio anche senza appartenere a un tarkomar purché venissero osservate certe minime restrizioni. Così stamparono e diffusero in tutta la città un sacco di depliant e i venusiani accorsero a frotte per vedere Munn e Thirkell che illustravano i pregi dei raggi Roentgen.
Mike Aquila Veloce piantò in asso il lavoro per quel giorno e si mise a fumare sconsideratamente una dozzina di sigarette attingendo alla scarsa scorta e tirando boccate rabbiose, perché con le sue colture idroponiche si era trovato nei guai.
«È pazzesco!» disse a Bronson. «Luther Burbank sarebbe ammattito... se si fosse trovato al mio posto. Come diavolo posso tirare a impollinare giusto con questi ambigui esemplari della flora venusiana?»
«Be', non mi pare proprio giusto,» lo consolò Bronson. «Diciotto sessi, eh?»
«Diciotto finora. E quattro varietà che a prima vista non avrebbero sesso alcuno. Come posso incrociare quei funghi pervertiti? Mi sa che i risultati sarebbero dei fenomeni da baraccone.»
«Allora sei a un punto morto?»
«Oh, no, ne sto facendo di strada,» commentò Mike Aquila Veloce con amarezza. «Ottengo risultati di ogni genere. Il guaio è che nulla rimane costante. Un giorno ottengo un fungo al gusto di rum, ma l'incrocio non funziona e le sue spore si trasformano in qualcosa che sa di trementina. Ecco cosa succede.»
Bronson lo guardò con simpatia. «Senti, non potresti fregare qualche cosa da mangiare intanto che non guardano? Almeno così il tuo lavoro non sarebbe del tutto inutile.»
«Mi perquisiscono,» disse il navajo.
«Che fetenti,» uggiolò Bronson. «Ma per cosa ci prendono? Per dei furfanti?»
«Mmph. Ehi, sta succedendo qualcosa là fuori. Andiamo a vedere.»
Uscirono dalla Goodwill e trovarono Munn che discuteva animatamente con Jorust che era venuta di persona a esaminare l'apparecchio per raggi X. Una folla di venusiani li osservava avidamente. Il viso di Munn era scarlatto.
«Ho consultato bene i codici,» stava dicendo. «Questa volta non mi può fermare, Jorust. È perfettamente legale costruire una macchina e venderla fuori dei confini della città.»
«Certo,» disse Jorust. «Non è di questo che mi sto lamentando.»
«E allora? Non infrangiamo nessuna legge.»
La donna fece un gesto e si fece avanti un grasso venusiano con l'andatura di papero. «Brevetto radice tre grosse quattordici due dozzine, concesso a Metzi-Stang di Mylosh nell'anno dodici alla quarta potenza, soggetto lastre sensibili.»
«Che roba è questa?» chiese Munn.
«Un brevetto,» rispose Jorust. «Venne concesso tempo fa a un inventore venusiano di nome Metzi-Stang. Poi un tarkomar l'ha acquistato e ha abolito il procedimento. Ma è tutt'ora illegale infrangere il brevetto.»
«Vuol dire che su Venere qualcuno ha già inventato un apparecchio a raggi X?»
«No, solo le pellicole sensibili. Ma queste fanno parte del suo apparecchio e quindi non può venderlo.»
Thirkell si fece avanti. «Ma io non ho bisogno di pellicole...»
Il grasso venusiano disse: «Brevetto vibratorio tre grosse due dozzine e sette...»
«E adesso cosa c'è ancora?» lo interruppe Munn.
Jorust sorrise. «Le macchine che utilizzano le vibrazioni non possono infrangere quel brevetto.»
«Questo è un apparecchio a raggi X,» scattò Thirkell.
«La luce è una vibrazione,» gli disse Jorust. «Quindi non può venderla senza prima acquistare il permesso dal tarkomar che ora possiede quel brevetto. Dovrebbe costare circa cinquemila sofal.»
Thirkell girò sui tacchi di botto e rientrò sull'astronave dove si versò un bicchierino di whisky e soda mentre pensava bramosamente ai germi della difterite. Dopo un po', riapparvero anche gli altri con un'aria sconsolata.
«Ma può farlo?» chiese Thirkell.
Munn annuì: «Certo che può, amico. E l'ha già fatto.»
«Noi non infrangiamo alcun brevetto loro.»
«Qui non siamo sulla Terra. Qui le leggi sui brevetti sono così ampie che se un uomo inventa un fucile, nessun altro può costruire un mirino telescopico. Siamo di nuovo nella bagna.»
«Sempre colpa di questi dannati tarkomar,» osservò Underhill, «basta che vedano un nuovo processo o un'invenzione che potrebbe provocare dei cambiamenti perché lo acquistino per sopprimerlo. Ma non riesco proprio a pensare ad alcun apparecchio che potremmo costruire senza infrangere qualche altro brevetto venusiano.»
«Loro stanno con la legge,» fece notare Munn. «La loro legge. Perciò non possiamo neppure sfidarli. Fintanto che saremo su Venere, saremo soggetti alla loro giurisprudenza.»
«E i fagioli cominciano a calare,» disse Thirkell scontroso.
«Cala tutto,» ribatté il comandante. «Qualcuno ha qualche idea?»
Ci fu un momento di silenzio, poi Underhill tirò fuori un globo di Veetsy e lo posò sul tavolo.
«Dove l'hai trovato?» chiese Bronson. «Costa quattro fal.»
«È vuoto,» disse Underhill. «L'ho trovato in un bidone della spazzatura. Ho studiato un po' la glassite... il materiale con cui fanno questi oggetti.»
«E allora?»
«Ho scoperto come la fanno. È un metodo difficile e costoso. Il materiale non è migliore del nostro flexiglass ed è molto più complicato da produrre. Se avessimo qui una fabbrica di flexiglass...»
«Sì...?»
«La Fabbrica Glassite andrebbe a rotoli.»
«Non capisco dove vuoi arrivare,» disse Bronson.
«Avete mai sentito parlare di una campagna fatta solo di voci ricorrenti?» chiese Underhill. «Mio padre, quel vecchio demonio è riuscito a manovrare più di una campagna elettorale a quel modo. Immaginatevi di mettere in giro la voce che c'è un nuovo metodo per ottenere un sostituto della glassite, migliore e più economico. Non vi pare che le azioni della Fabbrica Glassite crollerebbero?»
«Potrebbe darsi,» disse Munn.
«E noi potremmo fare incetta.»
«Con che cosa?»
«Oh,» Underhill tacque. «Ci vogliono dei soldi per fare altri soldi.»
«Sempre.»
«Però. Ecco un'altra idea. L'economia di Venere si basa sul sistema ferroso. Sulla Terra il ferro costa pochissimo, invece. Pensate se diffondessimo la voce di voler portare quassù del ferro... a carrettate. Scoppierebbe il panico, non vi pare?»
«Probabilmente no, se non abbiamo il ferro da mostrare in giro,» rispose Munn. «Trasmetterebbero della contropropaganda e noi non saremmo in grado di controbattere. La nostra campagna verrebbe soffocata prima ancora di partire. Il governo venusiano... i tarkomar negherebbero semplicemente che la Terra disponga di illimitate scorte di ferro. E noi non ci guadagneremmo niente lo stesso.»
«Eppure ci deve essere un modo,» disse Underhill con una smorfia. «Ci deve essere. Vediamo. Qual è la base del sistema venusiano?»
«Non c'è concorrenza,» rispose Mike Aquila Veloce. «Ognuno dispone di tutto ciò che gli serve.»
«Può darsi. Al vertice. Ma l'istinto della concorrenza è troppo forte per essere soppresso così. Io scommetto che ci sono un sacco di venusiani che sarebbero pronti a guadagnarsi qualche fal in più.»
«E questo dove ci porta?» volle sapere Munn.
«A fare ciò che ha fatto mio padre... uhm. Ha brigato, ha mosso le pedine giuste, ha fatto venire la gente da lui. Qua! è il punto debole dell'economia venusiana?»
Munn esitò. «Non c'è nessun punto debole che possiamo colpire... siamo troppo handicappati.»
Underhill socchiuse gli occhi. «La base di un sistema socioeconomico cos'è?»
«Il denaro,» rispose Bronson.
«No. La Terra oggi basa la sua economia sul radio. Anni fa seguiva il sistema aureo o quello dell'argento. Venere quello del ferro. E c'è anche il sistema del baratto. Il denaro è una variabile.»
«Il denaro rappresenta sempre delle risorse naturali...» cominciò Thirkell.
«Ore uomo,» disse Munn con calma.
Underhill fece un balzo. «Ci siamo! Ma certo... ore uomo! Ecco la costante. La quantità di produzione che un uomo può ottenere in un'ora rappresenta una costante arbitraria... due dollari, una dozzina di difal o quel che è. Ecco la base di ogni organizzazione economica. Ed è questa la base a cui bisogna vibrare il colpo. L'adorazione degli antenati, la potenza dei tarkomar... tutte cose superficiali in effetti. Una volta che verrà scosso il sistema di base, anch'essi crolleranno.»
«Non vedo dove ci porta tutto questo,» osservò Thirkell.
«Rendiamo variabili le ore uomo,» spiegò Underhill. «Una volta fatto questo, potrà succedere di tutto.»
«E sarà meglio che succeda alla svelta,» disse Bronson. «Ormai rimane ben poco da mangiare.»
«Zitto,» gli disse Munn. «Credo che il ragazzo abbia trovato la risposta giusta. Alterare la costante ora uomo, eh? Come possiamo farlo, però? Con l'addestramento specializzato? Insegnando a un venusiano come produrre il doppio nello stesso tempo? Con lavoro specialistico?»
«Loro hanno già il lavoro specialistico,» disse Underhill. «Se solo potessimo farli lavorare più in fretta o dargli più vigore...»
«Benzedrina rinforzata,» lo interruppe Thirkell. «Con una quantità sufficiente di caffeina, complessi vitaminici e riboflavina... sì potrei preparare un eccitante-ricostituente.»
Munn annuì lentamente. «Pillole, non iniezioni. Se la cosa funziona, dovremo farla di nascosto dopo un po'.»
«Ma cosa diavolo ci guadagneremo a far lavorare i venusiani più in fretta?» chiese Bronson.
Underhill fece schioccare le dita. «Non capisci? Venere è un modello ultraconservatore. Il sistema economico è come congelato, statico. Non è preparato ai cambiamenti. Per cui scoppierà il caos.»
Munn disse: «Avremo bisogno di pubblicità per suscitare all'inizio l'interesse del pubblico. Bisognerà fare delle dimostrazioni pratiche.» Si guardò attorno e il suo sguardo si posò su Mike Aquila Veloce. «Sembra proprio che tocchi a te, pellerossa. Tu, stando agli esami che abbiamo fatto sulla Terra, hai più vigore di tutti noi.»
«D'accordo,» disse il navajo. «Che faccio?»
«Lavorerai!» gli disse Underhill. «Lavorerai fino a schiantarti per terra!»
La cosa ebbe inizio il mattino dopo sulla piazza principale di Vyring. Munn aveva compiuto dei controlli accurati per assicurarsi che niente potesse andar male e aveva appreso che si doveva costruire un edificio ricreativo proprio sulla piazza. «I lavori non avranno inizio che tra diverse settimane,» disse Jorust. «Perché volete far questo?»
«Noi vogliamo solo scavare una buca,» disse Munn. «È legale?»
La venusiana sorrise. «Ma certo. Questo è terreno pubblico... fino a quando l'impresa comincerà i lavori. Ma temo proprio che una dimostrazione della vostra abilità muscolare non vi servirà a niente.»
«Eh?»
«Non sono una stupida. Voi volete cercare di procurarvi un lavoro e sperate di ottenerlo mostrando a tutti la vostra abilità. Ma perché scegliere proprio questo settore? Chiunque può scavare una buca. Non è un lavoro specialistico.»
Munn grugnì qualcosa. Se Jorust era saltata a quella conclusione che si accomodasse pure. «Far pubblicità rende sempre,» rispose. «Metta all'opera una pala meccanica sulla Terra e subito si raccoglierà una folla per osservarla. Noi non abbiamo una pala meccanica, ma...»
«Be', fate come volete. Legalmente è nel vostro diritto. Ma sappiate che non potete ottenere un lavoro se prima non entrate a far parte di un tarkomar.»
«A volte penso che il vostro pianeta starebbe molto meglio senza tarkomar di sorta,» sbottò Munn.
Jorust fece una mossa con le spalle. «Detto tra di noi, spesso l'ho pensato anch'io. Ma io sono solo un amministratore. Non ho alcun vero potere. E devo fare ciò che mi dicono di fare. Se mi fosse permesso sarei ben felice di prestarvi il denaro che vi serve...»
«Come?» Munn la guardò. «Io credevo...»
La donna si irrigidì. «Non è permesso. La tradizione non significa sempre saggezza, ma io non posso farci niente. Sfidare i tarkomar è impensabile e inutile. Mi spiace.»
Munn, dopo quella dichiarazione, si sentì però meglio. Allora i venusiani non erano tutti nemici. Responsabili di quella situazione pazzesca erano solo i tarkomar, gelosi della loro potenza e fanaticamente desiderosi di preservare lo status quo.
Quando tornò sulla piazza, gli altri erano in attesa. Bronson aveva innalzato un tabellone, scritto in caratteri fonetici venusiani e aveva preparato pala, piccone, carriola e assi per il navajo che a torso nudo sfidava col corpo bronzeo e muscoloso il vento freddo. Qualche barca che viaggiava sul canale si era fermata per osservare la scena.
Munn gettò un'occhiata all'orologio. «Okay, pellerossa. Diamoci da fare. Steve, puoi partire...»
Underhill cominciò a picchiare forte su un tamburo. Bronson segnò dei numeri sul tabellone; 4:03:00 tempo venusiano a Vyring. Thirkell si avvicinò a un tavolo da campo coperto di bottigliette e attrezzature mediche, da un flacone fece uscire una delle pillole stimolanti che aveva preparato e la diede a Mike Aquila Selvaggia. L'indiano l'ingoiò, sollevò il piccone e si mise al lavoro.
Tutto qui.
Un uomo che scavava una buca. Perché poi quello spettacolo dovesse essere così affascinante nessuno l'ha mai capito. Il principio rimane sempre lo stesso, sia che sia una pala meccanica a sollevare mezza tonnellata di terra per volta o un robusto navajo tutto sudato che si serve di pala e piccone. Le barche si infittirono.
Mike Aquila Veloce continuò a lavorare. Passò un'ora. Poi un'altra. A intervalli regolari ci furono delle brevi pause di riposo e Mike continuò a far rotare gli strumenti in modo da usare tutti i muscoli. Così dopo aver frantumato per un po' la terra col piccone, prendeva la pala e la caricava sulla carriola, scivolava col suo carico su un'asse e andava a scaricarlo in un monticello poco lontano che si faceva sempre più cospicuo. Tre ore. Quattro. Mike si interruppe per un breve pasto. Bronson tenne nota del tempo sul tabellone.
Thirkell diede al navajo un'altra pillola. «Come va?»
«Benissimo, sono resistente io.»
«Lo so. Ma questi stimolanti ti aiuteranno.»
Underhill era impegnatissimo con una macchina da scrivere. Aveva già macinato un pacco enorme di carta, perché si era messo subito al lavoro quando aveva cominciato anche Mike Aquila Veloce. Bronson aveva riscoperto una sua antica abilità e si era messo a fare il giocoliere con birilli e palle colorate. Anche lui andava avanti da parecchio.
Il capitano Rufus Munn azionava invece una macchina da cucito. Non era un lavoro che gli piacesse in modo particolare, ma richiedeva precisione e quindi tornava utile per il suo piano. Tutti quindi, eccetto Thirkell, facevano qualcosa e il medico era impegnatissimo a somministrare pillole e a fare la parte dell'alchimista.
Di tanto in tanto passava da Munn e Underhill, raccoglieva fasci di fogli e ritagli di stoffa ben cuciti e li depositava in varie scatole poste accanto al canale su cui un'etichetta diceva: «Prendetene un campione.» Sulla stoffa c'era ricamata a macchina una scritta in venusiano: «Un souvenir dalla Terra.» La folla si infittiva.
I terrestri continuarono a sgobbare. Bronson continuava a fare il giocoliere, fermandosi solo di tanto in tanto per rinfrescarsi. Alla fine passò a fare vari giochetti con le monete e le carte. Mike Aquila Veloce continuava a scavare. Munn a cucire. Underhill a scrivere a macchina... e i venusiani leggevano ciò che le sue dita agilissime continuavano a battere.
«Gratis! Tutto gratis!» dicevano i foglietti. «Federe per cuscini, souvenir della terra! Uno spettacolo gratuito! Osservate la forza, l'abilità e la precisione dei terrestri in quattro modi diversi. Per quanto possono continuare così? Con l'aiuto delle PILLOLE ENERGETICHE... all'infinito! La loro produzione è raddoppiata e la precisione accresciuta dalle PILLOLE ENERGETICHE... le pillole che vi danno la carica! Un medicinale della terra che raddoppia il valore di un uomo... in sofal!
Si andò avanti così, con quel vecchio gioco da caserma e con le opportune varianti. I venusiani non seppero resistere e la voce si sparse. La folla si infittì. Per quanto i terrestri sarebbero riusciti a tenere quel ritmo?
Per ora lo tenevano. Le pillole stimolanti di Thirkell, il cui effetto era accompagnato anche dalle iniezioni polivalenti che aveva fatto ai suoi compagni quella mattina stessa, sembravano funzionare. Mike Aquila Veloce scavava come un dannato. Il sudore scorreva a rivoli sul suo torso bronzeo. Beveva anche parecchio e mangiava pastiglie di sale.
Munn continuava a cucire senza sbagliare un punto. Sapeva che i suoi prodotti venivano esaminati accuratamente per vedere di scoprire qualche imprecisione. Bronson continuava a fare il prestigiatore con le monete, o il giocoliere, senza sbagliare mai. Underhill continuava a battere a macchina con le dita ormai indolenzite.
Cinque ore. Sei ore. Anche coi tempi di riposo era terribile. Avevano portato dei viveri dalla Goodwill, ma non erano troppo appetibili. Ma Thirkell li aveva scelti accuratamente per il loro contenuto calorico.
Sette ore. Otto ore. La folla era ormai tale che sui canali non si poteva più transitare. Arrivò un poliziotto che si mise a discutere con Thirkell, il quale gli rispose di andare a parlare con Jorust. Jorust dovette mettergli una pulce nell'orecchio, perché il poliziotto tornò indietro a osservare quanto succedeva, ma senza interferire oltre.
Nove ore. Dieci. Dieci ore di sforzi erculei. Gli uomini erano esausti, ma continuarono a darci dentro.
Ormai però erano riusciti a presentare il loro punto di vista perché qualche venusiano si avvicinò a Thirkell per chiedere informazioni sulle Pillole Energetiche. Cos'erano? Permettevano davvero di lavorare più rapidamente? Come si poteva acquistarne...?
Il poliziotto si materializzò accanto a Thirkell. «Ho un messaggio del tarkomar medico,» annunciò. «Se cercate di vendere quella roba, finirete in prigione.»
«Non ci pensiamo nemmeno,» disse Thirkell. «Noi distribuiamo solo dei campioni gratuiti. Prendi, amico.» Infilò la mano in un sacchetto e lanciò una pillola al più vicino venusiano. «Con quella potrai fare due giorni di lavoro in uno. Torna domani e ne avrai un'altra. Ne vuoi una anche tu, amico? Prendi. Anche a te. Su, servitevi.»
«Ehi, un momento...» intervenne il poliziotto.
«Si procuri un mandato,» gli disse Thirkell. «Non c'è nessuna legge che vieti di fare dei regali.»
In quel momento comparve Jorust seguita da un tarchiato venusiano dall'espressione intollerante che presentò quale capo dei tarkomar di Vyring.
«E sono qui per dirle di smetterla immediatamente,» disse il venusiano.
Thirkell sapeva cosa doveva dire. I suoi compagni continuavano a lavorare, ma lui sentì che osservavano e ascoltavano tutto.
«Quale articolo del codice invoca?»
«Oh... spaccio illegale.»
«Ma io non vendo nulla. Questo è terreno pubblico e noi stiamo offrendo uno spettacolo gratuito.»
«Quelle... ehm... Pillole Energetiche...»
«Sono campioni gratuiti,» disse Thirkell. «Senta, amico, quando noi abbiamo offerto tutti i nostri viveri a voi furfanti venusiani, non ha aperto il becco per protestare, no? Avete preso tutto quanto, invece. Poi avete chiuso la borsa. E quando vi abbiamo chiesto indietro i nostri viveri, ci avete detto che non avevamo il diritto legale di richiederli indietro; il possesso è garantito dalla legge e noi avevamo il diritto di fare dei regali gratuiti. La stessa cosa cioè che facciamo adesso... distribuiamo dei regali. E allora come la mettiamo?»
Gli occhi di Jorust brillavano soddisfatti, ma la donna nascose rapidamente quanto pensava. «Temo che dica la verità. La legge lo protegge. Non sarà un gran danno.»
Thirkell la osservò chiedendosi se Jorust avesse per caso indovinato la risposta giusta. La donna era forse dalla loro parte? Il capo dei tarkomar divenne di un verde scuro, esitò, poi girò sui tacchi e se ne andò. Jorust rivolse ai terrestri una lunga occhiata enigmatica, scrollò le spalle e lo seguì.
«Sono ancora tutto rigido,» disse Mike Aquila Veloce una settimana dopo a bordo della Goodwill. «E anche affamato.»
Thirkell, presso la camera stagna, diede una Pillola Energetica a up venusiano e tornò indietro strofinandosi le mani soddisfatto. «Aspetta. Aspetta e basta. Che succede, comandante?»
Munn indicò con un cenno del capo Underhill. «Chiedilo al ragazzo. È appena tornato indietro da Vyring qualche minuto fa.»
Underhill fece una risatina. «È scoppiato un pandemonio. E tutto nel giro di una sola settimana. Decisamente abbiamo vibrato un bel colpo al piedistallo economico. Tutti i venusiani che lavorano a cottimo vogliono le nostre pillole per aumentare la produzione e guadagnare di più. È l'istinto competitivo che si fa sentire... quello è universale.»
«E allora?» chiese Bronson. «Ai grossi papaveri l'idea è piaciuta?»
«Per niente. Ha sconvolto l'equilibrio economico che hanno raggiunto da secoli. Fino ad oggi un venusiano guadagnava esattamente dieci sofal alla settimana, diciamo sfornando cinquemila capsule per bottiglie. Con le pillole di Steve adesso ne sforna otto o diecimila e guadagna proporzionalmente di più. Così anche quello che gli lavora a fianco dice al diavolo e viene da noi per avere la sua Pillola Energetica. E il giro si allarga. Il bello però è che non tutti i lavori sono a cottimo, non sarebbe possibile, infatti. Per il cottimo occorrono oggetti tangibili. Per esempio il lavoro di chi aziona una macchina meteorologica deve essere misurato a tempo... non in base alle gocce di pioggia prodotte in un giorno.»
Munn annuì col capo. «Quindi il risultato è la gelosia, giusto?»
Underhill disse: «Infatti. Un addetto alla macchina meteorologica ha finora sempre guadagnato dieci sofal alla settimana, lo stesso che guadagnava quello dei tappi con il cottimo. Adesso però quest'ultimo guadagna venti sofal e l'addetto alla macchina meteorologica non vuole sentire ragioni. Anche lui vuole la sua Pillola Energetica, ma questa non gli serve per aumentare la produzione. Così chiede un aumento. Ma se lo ottiene, l'economia viene ancora di più stravolta. Se però non l'ottiene, gli altri addetti alle macchine meteorologiche si schierano dalla sua parte e si considerano ingiustamente discriminati. Così si infuriano coi tarkomar e scioperano!»
Mike Aquila Veloce disse: «I tarkomar hanno proibito di lavorare ai venusiani che prendono Pillole Energetiche.»
«Ma i venusiani continuano a chiedercele. E allora? Come si può dimostrare che qualcuno le prende? La sua produzione aumenta, certo, ma i tarkomar non possono prendersela con tutti quelli che hanno una buona produzione. Ci hanno provato e un sacco di gente che non aveva mai preso una Pillola Energetica si è infuriato, perché erano semplicemente degli operai più veloci degli altri?»
«Quella dimostrazione che abbiamo dato è stata una buona idea,» disse Thirkell. «È stata convincente. Ho dovuto ridurre l'effetto delle pillole, cominciamo a scarseggiare di ingredienti, ma abbiamo il potere della suggestione dalla nostra parte.»
Underhill sogghignò. «Così la costante, l'unità ora uomo, è andata a pallino. Abbiamo gettato un bel bastone nelle ruote dell'economia. E adesso la voce dilaga. Non solo a Vyring. La notizia è corsa su tutta Venere e i lavoratori delle altre città si chiedono perché mai metà dei lavoratori di Vyring debbano avere paghe migliori. In questo ci aiuta anche il fatto che su Venere viga un unico sistema monetario. Qui non c'erano stati mutamenti da secoli. E adesso...»
Munn disse: «Adesso il sistema crolla. È una falla naturale in un sistema rigido perfettamente integrato. Per la mancanza di un sol chiodo i tarkomar stanno perdendo tutto il loro potere. Perché hanno dimenticato come adattarsi alle nuove situazioni.»
«Si diffonderà,» affermò Underhill con fiducia. «Si diffonderà. Steve, ecco che arriva un altro cliente.»
Ma Underhill si sbagliava. Erano Jorust e il capo dei tarkomar di Vyring. «Che siate degni dei nomi dei vostri antenati,» li accolse educatamente Munn. «Sedetevi e bevete qualcosa con noi. Ci rimane ancora qualche bulbo di birra.»
Jorust obbedì, ma il venusiano si dondolò sui talloni e gli lanciò un'occhiata incendiaria. La donna disse: «Malsi è sconvolto. Queste Pillole Energetiche stanno provocando un sacco di guai.»
«Non capisco proprio perché,» disse Munn. «Servono ad accrescere la produzione, non è così?»
Malsi fece una smorfia. «Questo è un trucco! Uno stratagemma! Voi state abusando della nostra ospitalità!»
«Quale ospitalità?» volle indagare Bronson.
«Voi mettete in pericolo tutto il sistema,» continuò Malsi, cocciuto. «Su Venere non ci sono cambiamenti. Non ci devono essere.»
«Perché no?» chiese Underhill, «C'è solo una vera ragione e lei la conosce benissimo. Qualsiasi progresso potrebbe dar fastidio ai tarkomar... e mettere in pencolo il potere che detengono. Voi avete formato un vero e proprio racket che ha tenuto la frusta in mano per secoli. Avete soppresso le invenzioni, avete tenuto indietro Venere, avete cercato di estirpare dalla razza il desiderio di nuove iniziative, appunto per poter continuare a rimanere a cavallo. Ma non può durare. I cambiamenti sono inevitabili: è sempre così. Se non fossimo arrivati noi, un giorno o l'altro si sarebbe verificata alla fine un'esplosione interna.»
Malsi gli scoccò un'occhiata incendiaria. «Voi cesserete immediatamente di preparare queste Pillole Energetiche.»
«Mi indichi in base a quale articolo di legge,» ribatté con voce calma Thirkell. «Mi mostri un precedente.»
Jorust disse: «Il diritto di fare dei doni gratuiti è il più vecchio diritto esistente su Venere. Naturalmente si potrebbe cambiare la legge, Malsi, ma non credo che alla gente piacerebbe.»
Munn sogghigò. «No, non credo proprio. Questa sarebbe la goccia che farebbe traboccare il vaso. I venusiani ormai hanno scoperto che è possibile guadagnare di più. Gli porti via quella possibilità e i tarkomar non saranno più considerati dei governanti benevoli.»
Il colorito di Malsi diventò di un verde ancora più cupo. «Noi abbiamo il potere di...»
«Jorust, lei è un amministratore. Noi siamo protetti dalle vostre leggi, vero?» chiese Underhill.
La donna mosse le spalle. «Sì, infatti. Le leggi sono sacrosante. Forse perché sono state studiate appunto per proteggere i tarkomar.»
Malsi si girò di scatto verso di lei. «Per caso sta prendendo le parti dei terrestri, lei?»
«Oh, no di certo, Malsi. Io intendo semplicemente far rispettare la legge, come ho giurato di fare quando ho assunto la mia carica. Senza pregiudizi... non è così?»
Munn disse: «Se volete, potremo anche smettere di preparare le Pillole Energetiche, ma vi avverto che sarà solo una tregua per voi. Non si può fermare il progresso.»
Malsi non sembrava molto convinto. «La smetterete davvero?»
«Certo. Se ci pagate!»
«Noi non possiamo pagarvi,» affermò con ostinazione Malsi.» Voi non appartenete a nessun tarkomar. Sarebbe illegale.»
Jorust mormorò: «Potreste fargli una donazione gratuita di... diciamo... diecimila sofal.»
«Diecimila sofal!» uggiolò Malsi. «È ridicolo!»
«Infatti,» osservò Underhill. «Direi piuttosto cinquantamila. Con quelli potremo vivere bene per un anno.»
«No.»
Sull'entrata della porta stagna comparve un venusiano che sbirciò dentro e disse: «Oggi ho guadagnato il doppio. Potrei avere un'altra Pillola Energetica?» Poi vide Malsi e scomparve lanciando un grido.
Munn scrollò le spalle. «Faccia come vuole. O paga, o noi continueremo a distribuire le Pillole Energetiche... e voi dovrete cercare di adattare un'economia rigida a una nuova situazione. Non credo proprio che ci riuscirete.»
Jorust toccò il braccio di Malsi. «Non c'è altro modo.»
«Io...» il venusiano era ormai nero per la rabbia di vedersi senza via di scampo. «E va bene,» capitolò, sputando le parole tra i denti. «Non me ne dimenticherò, Jorust.»
«Ma io devo amministrare la legge,» ribatté la donna. «Via, Malsi! La regola dei tarkomar è sempre stata una indefettibile onestà.»
Malsi non rispose. Si limitò a scarabocchiare un assegno per cinquantamila sofal, lo convalidò e lo porse a Munn. Dopo di che lanciò un ultimo sguardo attorno prima di andarsene e uscì con passo furioso.
«Benone!» esclamò Bronson. «Cinquantamila cucuzze! Stasera si mangia!»
«Che siate degni dei nomi dei vostri padri,» mormorò Jorust. Sulla porta stagna si voltò. «Temo proprio che abbiate sconvolto parecchio Malsi.»
«Quanto mi dispiace,» disse Munn con aria ipocrita.
Jorust mosse leggermente le spalle. «Sì, l'avete proprio sconvolto. E Malsi rappresenta i tarkomar...»
«Che cosa può fare adesso?» chiese Underhill.
«Niente. Le leggi non gli permetteranno di far niente. Ma... fa piacere vedere che i tarkomar non sono poi infallibili. Credo proprio che la voce correrà su Venere.»
Jorust ammiccò gravemente a Munn e si allontanò con l'aria innocente di una gatta e altrettanto pericolosa in potenza.
«Ma bene!» disse Munn. «Che cosa significa tutto questo? Magari la fine del dominio dei tarkomar?»
«Può darsi,» rispose Bronson. «Ma non me ne frega un accidente. Ho una fame del diavolo io e voglio un bel fungo bistecca. Dov'è che si può incassare un assegno di cinquanta grandoni su Venere?»
FINE